mercoledì 28 aprile 2010

L'esperienza della malattia nella letteratura

Intervento dell'Avv. Antonio Salvatore in occasione della presentazione dell'edizione italiana del volume di Douglas Firth “Il caso di Augusto D'Este”, tenutosi in Ferrara presso la Sala Arengo in data 30 aprile 2010


L'occasione dell'intervento – più acconcio sarebbe l'epiteto “riflessione” - sorge dalla presentazione dalla raffinata edizione italiana (anno 2009) del raro volume The Case of Augustus d'Este, pubblicato nel 1948 dal medico inglese Douglas Firth, che sottrasse alla profanazione del tempo, dei topi e dei ladri lettere diari e manoscritti composti, tra il 1793 e il 1847,da Lady Augusta d'Ameland e dal figlio di costei, Sir Augusto d'Este, discendente, come suggerisce il cognome, dell'omonima Casa.
Vi è contenuta la minuziosa, a volte impietosa, descrizione della malattia dalla quale venne colpito Sir Augusto d'Este (n. 1794 – m. 1848), la sclerosi multipla.
Siamo al cospetto di quel genere letterario, l'”autopatografia”, la narrazione-cronaca personale dell'esperienza della malattia da parte della stessa persona che ne è afflitta, in cui il più delle volte – si pensi a Italo Svevo o, modernamente, a Tiziano Terzani – l'autopatografo è persona di cultura, molto spesso uno scrittore. Quel che è certo è che, come osservato dal Prof. Enrico Granieri nell'introduzione al volume che oggi viene presentato, tale genere letterario “riveste notevole importanza da un punto di vista strettamente storico e medico per la ricapitolazione in un determinato periodo dei progressi diagnostici e terapeutici attraverso l'osservazione dei dati anamnestici delle cure eseguite”.
Ma notevole importanza riveste anche in capo più strettamente letterario se è vero, per dirla con Susan Sontag, la scrittrice statunitense deceduta nel 2004 per leucemia, che la malattia è "il lato notturno della vita".
Thomas Mann, ne “La montagna incantata”, sviluppa il tema del morbo, interrogandosi sui rapporti tra la malattia e la vita e tra l'individuo malato e i sani.
Kafka era ossessionato dal tema della malattia come espressione esterna del proprio malessere interiore, al punto da somatizzare i sintomi del male nell'incomprensione con i familiari; per tutta la vita desiderò essere amato e accettato dalla propria famiglia, sensazione che emerge prepotentemente nel romanzo “La metamorfosi”.
In Pirandello predomina il tema della follia del disagio psicologico, delle fissazioni monomaniacali, in tutte le possibili forme e deviazioni: egli rappresenta il malessere psicologico dell'uomo di fronte al perbenismo borghese dell'epoca, ciò che lo rende attuale.
In Proust il malato è forzatamente isolato dal resto della comunità, la malattia è un fattore discriminante che allontana il malato dal centro della scena, dal contesto sociale.
Per Sartre la malattia è disgusto, nausea, in grado di distruggere "ab imis" le fondamenta della società. Nausea della vita, perdita di ogni motivazione, l'uomo è annullato di fronte all'irrazionalità delle comuni espressioni del vivere sociale. Famiglia, lavoro, carriera, memoria, dolore e la stessa morte si trasfigurano in elementi confusi di un caravanserraglio irrazionale, illogico, incomprensibile e inaccettabile.
Albert Camus riprende con coraggio il tema antico della peste e lo situa in contesto moderno: la malattia diventa il sintomo della guerra che sta distruggendo il mondo, la peste diviene lo spunto per analizzare l'isolamento, la morte, il dolore, la separazione dalla famiglie, la necessità di scegliere tra l'impegno e la sopravvivenza, l'allontanamento e l'esilio.
In Svevo la malattia è immaginata con estrema lucidità, è più forte della vita al punto di prenderne il posto.
Per Gadda (ne “La cognizione del dolore”), la malattia è sentimento di frustrazione, senso diffuso e paralizzante di depressione.
Tobino si colloca nella prospettiva del medico, la figura romantica del medico-missionario rinchiuso con "i matti" (come affettuosamente, senza ricorrere a metafore, amava definirli) in manicomio, in una lunga transizione che conduce a un mondo senza manicomi.
Nel “Memoriale” di Paolo Volponi, il malessere scaturisce dal conflitto tra natura e civiltà della macchine.

Metafora e malattia.
In questo intervento si vuole rispondere all'interrogativo se possiamo fare a meno delle metafore, nella vita quotidiana e nella letteratura.
Nel definire la malattia (“il lato notturno della vita”), la Sontag come abbiamo visto fa uso di una metafora, e non a caso, proprio perché, probabilmente, la metafora è la maniera più interessante di trattare il tema della malattia, molto più del mero uso del morbo, dell'affezione come sfondo della vicenda narrata (come avviene ne “I Promessi Sposi”, ove la peste che colpisce l'intera comunità viene usata come fondale per scene corali così drammatiche da essere passate alla storia) o, come nel caso di Augusto d'Este, come mera testimonianza medico-scientifica.
Benché nata come figura retorica la metafora (dal greco: “trasferire”), è stata da sempre utilizzata nel linguaggio comune. La ragione di ciò – osserva Cicerone nel “De oratore” - è da ricercare nel fatto che il traslato, “nato dalla necessità, sotto la spinta del bisogno e della povertà linguistica, si è diffuso largamente per via del piacere e del godimento che sono insiti in esso”, come è avvenuto “per il vestito che fu inventato dapprima per difendere dal freddo e che poi cominciò ad adoperare anche come ornamento e decoro del corpo”.
Nel caso della malattia, pare che siamo rimasti fermi alla funzione “difensiva”, di “protezione”, per allontanare da noi (o nell'illusione di allontanare) l'angoscia proveniente dal pensiero morte.
Quante volte abbiamo sentito l'espressione: “ha perduto la sua battaglia contro il cancro”; “l'invasione delle società ad opera dell'AIDS o del cancro”; “le armi a disposizione della scienza nella lotta all'AIDS o al cancro”; “la moderna scienza medica che dichiara guerra al cancro o all'AIDS”?
La malattia e la morte di un essere umano, in definitiva, vengono esposte nei termini di un impegno e una sconfitta militare.
Per restare in ambito letterario, ricordiamo che ne “La morte a Venezia” di Mann, il colera esprime metaforicamente la corruzione morale del protagonista, Gustav Von Aschenbach. Mentre costui si abbandona gradualmente al piacere decadente che prova nello spiare un ragazzo polacco, il colera si impadronisce del suo corpo. Una dolce corruzione lo distrugge moralmente, così come il colera – che ha devastato l'Europa – contamina e distrugge il suo corpo. Nelle strade di Venezia, Aschenbach cede alla tentazione di consumare alcune fragole, dolci e troppo mature, che gli trasmettono il colera e alla fine, mentre contempla sulla spiaggia Tadzio, Aschenbach muore, nella segreta estasi della decadenza, della mollezza e della vergogna.
Esteriormente la sua dignità pubblica rimane intatta, ma interiormente egli ha ceduto.
In definitiva, la metafora, nella vita o in letteratura, ci mette fuori strada o ci aiuta a comprendere il fenomeno della malattia?
Vogliamo dire che l'atto di scrivere – già di per sé, per molti autori, espressione di malattia – quando si tratta di narrare la malattia (o la morte), attraverso l'utilizzo della metafora, si colora e si carica di un valore simbolico, diviene metafora di altri significati, che rimandano gli uni agli altri.
Malattia intesa come morbo psicologico, follia, malessere collettivo, disagio morale, incapacità di adattamento, solitudine, noia, malinconia, in senso fisico. Tutti concetti che assumono, in letteratura, valori simbolici.
E si sa che il simbolo possiede una duplice natura, giacché, nel momento stesso che rivela, nasconde.
E ci piace ricordare un'altra funzione della metafora, quella di esprimere un concetto in maniera più efficace, più “forte”, come amava ricordare Borges.
E' certo un fatto che la malattia, al pari della morte (che spesso annuncia), costituisce un (e forse il) "topos" letterario per eccellenza.
In tutte le mitologie dei popoli antichi, la malattia viene interpretata come segno divino, punizione inflitta all'uomo singolo o alla collettività, come castigo per le colpe commesse: si pensi alla peste, alla tisi, all'AIDS.
Nessuno oggi (anche se da qualche parte si è letto) seriamente sottoscriverebbe l'esistenza di un nesso tra malattia e corruzione morale: tale nesso è una metafora, non un concetto.
Ma le metafore, come i simboli, sono “potenti”, affondano le loro radici in profondità, molto più dei concetti razionali.
Possono condizionare il modo con cui vediamo il mondo.
E appare significativo che la stessa Sontag (“Illness as Metaphor”, 1978 e dieci anni dopo “AIDS as Metaphor”, 1989), nel delineare la propria visione oscura, ctonia, della metafora e nella sua ferma intenzione di demistificare la malattia da cui era stata colpita e della quale sarebbe morta (leucemia), rifiutando di attribuirle significati, asserendo che la malattia deve essere vista con lucidità per quello che è, non come simbolo di qualcos'altro (“la polmonite non è che polmonite”), ricorre come abbiamo visto a una metafora (“la malattia è il lato notturno della vita”): concetto ctonio quanto terribile.
Forse delle metafore, come dei simboli, non possiamo proprio fare a meno.
Avv. Antonio Salvatore

venerdì 5 marzo 2010

"Risvolti letterari nella vita di Lombroso"
Intervento dell'Avv. Antonio Salvatore nel Convegno “Genio e Follia”, tenutosi in Ferrara presso la Biblioteca Ariostea in data 4 marzo 2010


§1. Premessa.
Il mio intervento, è necessario premettere, in omaggio ai fini della Società Dante Alighieri, metterà in luce i rapporti tra le dottrine lombrosiane e la letteratura, non solo italiana, del secondo Ottocento e dei primi anni del Novecento e del “riuso creativo”, in letteratura, di tali dottrine.
Non mi occuperò, pertanto, delle applicazioni giuridiche del pensiero di Lombroso, la cui trattazione richiederebbe un convegno a parte.

§2. Cesare Lombroso e la letteratura italiana del secondo Ottocento e del primo Novecento.

Uno degli aspetti meno noti di Cesare Lombroso è il suo amore per la letteratura, che si intrecciò in maniera indissolubile con la dedizione alla scienza.
Egli, invero, si occupò di temi letterari non solo nell'opera “L’Uomo di Genio”, ma in non pochi articoli di critica letteraria. Per un esempio, si ricordano quelli pubblicati sul “Fanfulla”, nonché una personale critica al romanzo “La Bestia umana” di Zola.
Lo stesso Lombroso si chiederà, all’apice della carriera, quando le sue opere avevano fatto il giro del mondo, come mai l’antropologia criminale trovasse una più incisiva presenza più nella letteratura che nella scienza, come mai “il vero si accetta dai romanzieri e non dagli scienziati”.
Egli notò che, mentre nel romanzo e nel dramma antico (eccezion fatta per Dante e Shakespeare), “i veri pazzi e i criminali non compaiono ancora”, curando gli scrittori più il simbolo, la tradizione e la declamazione “che non la pittura delle persone”, viceversa, in età moderna, le scoperte dell’antropologia criminale sembravano anticipare, o addirittura riflettere, le aspirazioni profonde dei grandi scrittori russi, francesi, svedesi, da Balzac a Zola a Daudet, da Dostoevskij a Ibsen.
Dostoevskij, addirittura, lo descrive come “un vero antropologo criminale”, mentre nei romanzi di Zola, Lombroso ammira la “descrizione perfetta di quella che io chiamo vertigine criminale epilettoide, ch’è per me il fondo del reo-nato”.
Lombroso credeva nell’utilità della divulgazione semplice e popolare per esporre le nuove verità a un grande pubblico, così come considerava utile l’arte del romanzo, dal momento che consentiva alla scienza di oltrepassare i propri specialismi e tecnicismi.
Per rendersi conto della diffusione delle opere lombrosiane anche presso il pubblico non specialista, si legga l’intervento dello scrittore Carlo Dossi (n. 1849 – m. 1910) a proposito della quarta edizione di “Genio e Follia”: “se dal numero delle edizioni si può trarre un criterio sul valore o almeno sul successo di un’opera, è certo che questo Genio e Follia si incammina a gran passi alla celebrità”, aiutato certo dal fatto che può risultare “una lettura utile a tutti, poiché tutti hanno un grano, se non di genio, di follia: aggiungiamo che è una lettura anche dilettevolissima - e ciò per le gentili signore, avide di romanzo criminale e di cronaca ergastolina” (1).
Non bisogna dimenticare che quelli erano gli anni in cui usciva, a Milano, per i tipi della Sonzogno, l’opera “I processi celebri illustrati di tutti i popoli” (una sorta di “Un giorno in Pretura” su carta stampata) e in cui usava recarsi a vedere la celebrazione dei processi in Corte d’Assise con la stessa (morbosa) curiosità e il medesimo interesse con cui ci si recava a teatro.
Potrebbe farsi un parallelo con quanto accade attualmente, rispetto alla scienza criminologica e medico legale, con le “fiction” televisive tipo “Bones”, “Law & Order”, “Cold Cases” e così via.
Non mancarono, tuttavia, coloro che ravvisarono nelle idee lombrosiane un atteggiamento di deprezzamento della cultura e dell'arte e ne criticarono la “problematica interdisciplinarietà”: tra essi, spicca Luigi Pirandello che, in un articolo apparso sulla rivista fiorentina “La nazione letteraria” del settembre del 1893 osservò: “ora che (…) Lombroso ha scritto un libro dal titolo Genio e Follia, nessuno più si fa scrupolo di penetrare con la lente del medico alienista nei dominii dell'arte”.
Così come la scrittura di Lombroso riflette la convinzione dell'utilità della divulgazione “popolare” nella sua discorsività e colloquialità (“L'Uomo di Genio” e “L'Uomo Delinquente”, possono davvero leggersi come romanzi), per la capacità di presentare i casi clinici, le anomalie dei delinquenti e dei folli, così il romanzo accoglie tematiche proprie delle scienze e privilegia gli aspetti inquietanti e patologici della realtà.
Pur se criticate fortemente - già all’epoca - a livello teorico, le dottrine lombrosiane costituirono, dunque, i “ferri del mestiere” di molti scrittori della seconda metà dell'Ottocento e dei primi decenni del secolo successivo, tanto che si è efficacemente parlato di “linea fruitiva” o “di ricezione”, rappresentata dal riuso creativo, in letteratura, delle teorie lombrosiane (2).
Riprendendo il titolo del Convegno, notiamo che “Genio e Follia” (che condivide con “L’Uomo Delinquente” il primato dell’opera più nota dello scienziato) è il testo lombrosiano – costruito sull’equazione “genio uguale malattia” – maggiormente in sintonia con la narrativa del periodo citato, non solo italiana.
Per rimanere in ambito nazionale, non può negarsi come la letteratura, in parte, si ispirasse alle dottrine lombrosiane e come, per l’altra parte, sia possibile imbattersi in passi di sicura risonanza lombrosiana: basti ricordare i romanzi “Fosca” (1869) di Iginio Ugo Tarchetti, “Malombra” (1881) di Antonio Fogazzaro e “I Vicerè” (1894) di Federigo De Roberto.
Ancora, come può negarsi che il Franti di De Amicis non mostri le stigmate del “reo nato” e come Pascoli, allorché si soffermerà sul risveglio del “bruto primordiale”, della “bestia” che è nell’uomo, tenga ben presente Lombroso (3)? Come è stato acutamente osservato (4), nel periodo in esame, in letteratura, la medicina aveva assunto il ruolo di “scienza guida”, tanto che “alcuni casi clinici descritti dal celebre Pinel, alienista a Bicetre, sembrano usciti addirittura dai romanzi di Balzac, così come i malati di Janet assomigliano ai personaggi di Zola”.
E’, pertanto, possibile parlare di “reciproca osmosi” tra il sapere psichiatrico dell’epoca e la letteratura, tanto che le idee e le tematiche di Lombroso si prestarono agevolmente a trasfigurarsi in “topoi” narrativi, come la “naturalità del male”, la “predestinazione fatale, biologica al delitto”, “la psicosi del genio”.
Del resto, la stessa dottrina di tipo “degenerativo” – l’”humus” dal quale trarrà linfa la figura dell’”uomo di genio” – non è che il naturale prodotto della formazione letteraria romantica di Lombroso, di marca foscoliana-byroniana, vale a dire di una concezione estetica che sospinge la letteratura e l’arte in genere verso i domini del morboso, della decadenza, del brutto, sottraendole la prerogativa della bellezza, in contrasto con la prospettiva evoluzionistica, che allora andava per la maggiore.
Ecco, allora, che si verifica una vera e propria intromissione di uno psichiatra, di uno scienziato, nei domini della letteratura, con accentuazione dei lati patologici della prassi creativa, vista come “furor”, “trance”, “impulso improvviso” (2).

§3. “Genio e Follia”.

E' un’opera che, con il passare degli anni, ha subito un processo di dilatazione, dilagando dal centinaio di pagine della prima edizione milanese del 1864 (sotto forma di lezione introduttiva al corso di clinica psichiatrica tenuto a Pavia) alle settecentotrentanove pagine della sesta edizione del 1894, uscita presso l’editore Bocca col titolo “L’Uomo di Genio”.
Essa contiene un incredibile quantità di biografie (il più delle volte “borgesianamente” immaginarie e manipolate), aneddoti pittoreschi e romanzati sui personaggi storici e su quelli che oggi definiremmo gli “intellettuali” più disparati: Napoleone, Leopardi, Paganini, Pascal, Goethe, Cavour, Stuart Mill, Dumas, Baudelaire, Martin Lutero, Beethoven e perfino Gesù Cristo, descritto in preda ad “allucinazioni acustiche”.
Ce n’è anche per Dante: Lombroso ha notato che nell’”Inferno” sono frequenti le cadute (la più nota è quella del Canto V dell'Inferno: “e caddi come corpo morto cade”), come è proprio degli epilettici; nel “Purgatorio” predominano le visioni, come è proprio dei sonnambuli e nel “Paradiso” l’estasi, com’è proprio degli allucinati.
A proposito delle visioni del Purgatorio, l'analisi lombrosiana acquista colore e spessore se posta a confronto con quanto osservato, più di ottant'anni dopo, da Italo Calvino nello splendido saggio “Visibilità”, facente parte delle “Lezioni americane” (5), nel commentare il venticinquesimo verso del Canto XVII del Purgatorio “Poi piovve dentro a l'alta fantasia”: “(...) nel girone degli iracondi, (..) Dante sta contemplando delle immagini che si formano direttamente nella sua mente, e che rappresentano esempi classici e biblici di ira punita (…); nei vari gironi del Purgatorio, (…) si presentano a Dante delle scene che sono come citazioni o rappresentazioni di esempi di peccati e di virtù: prima sotto forma di bassorilievi che sembrano muoversi e parlare, poi come visioni proiettate davanti ai suoi occhi, come voci che giungono al suo orecchio, e infine come immagini puramente mentali”.
Lombroso (che esaminò diciotto versi della Divina Commedia, dichiarando senz’altro che Dante era epilettico) ne dedusse lo stato nevrotico e patologico, epilettico e convulsivo e sempre psichico di Dante: il fondatore dell'Antropologia criminale ne parla come se il poeta fosse realmente stato nell’altro mondo in corpo e anima e, insomma, “scambia un lavoro d’arte o di fantasia con la realtà della vita” (6).
L’opera si basa sull’idea che “il genio, come il delitto, è una delle forme teratologiche della mente umana, una fra le varietà della pazzia” e che “i giganti del genio pagano il fio della loro potenza intellettuale con la degenerazione epilettica e colla follia”.
Anche in questo caso, l’impalcatura teorica è rappresentata dalla categoria, elevata a personale “Weltanschauung”, del “misoneismo” (l’odio – e la paura – del nuovo), primo strumento che “garantisce la permanenza della vita e che si riscontra in ogni grado dell’essere”.
Emblematica è la prefazione all’edizione francese del 1894 di “Genio e Follia”, scritta da Charles Richet: “La natura non ama le eccezioni; cerca di farle sparire; si preoccupa prima di tutto dell’uniformità della razza. E’ essenzialmente democratica e livellatrice. Non ama gli intellettuali aristocratici, che sono gli spiriti geniali. Li sopporta con impazienza, e il suo compito e di far rientrare questi irregolari nei ranghi”.
Nell’ultima edizione italiana de “L’Uomo di Genio” del 1894, Lombroso aveva affermato che “i romanzieri, gli scrittori, colgono e intuiscono le scoperte antropologiche criminali, i grandi artisti sanno raffigurare figure vere sotto una forte luce, l’arte risveglia in noi la coscienza del vero”.
Ecco allora che l’arte collabora con la scienza, con la conoscenza e la conferma e la ispira, le opere letterarie e artistiche rappresentano uno specchio e contengono quasi una profezia della scienza futura (7)
Il deviante, l’anomalo, il genio, sono visti come fattori di movimento storico la cui forza e potenza dirompenti sono da sottoporre al controllo del “tecnico” (lo scienziato), che si fa garante della norma, per regolare, trasformare, ordinare.
Il progresso ordinato può nascere solo dalla tensione tra il misoneismo come fattore stabilizzante di equilibrio e l’elemento di rottura.
Va comunque notato che Lombroso, in armonia con la propria formazione romantica, non demonizza la figura del genio, né la ostracizza come diversa, ma la guarda con occhio simpatetico (2), tanto che, per lo scrittore Federigo De Roberto (8), non sarà Lombroso, ma Max Nordau (l’autore della celebre opera “Degenerazione, al quale Lombroso, peraltro, dedicò “L’Uomo Delinquente”, definendolo “apostolo della nuova scuola in Europa”) un “nemico dell’arte”.
“Genio e Follia”, recentemente, è stato icasticamente paragonato al “magazzino muschioso di una sartoria teatrale, alla disordinata bottega di un trovarobe”, rigurgitando “di ciarpame, costumi ridicoli e sdruciti e di oggetti sgangherati e polverosi”. Tuttavia “qua e là si riesce pur sempre a trovare qualcosa di curioso” (9).
E’, probabilmente, ciò che si può affermare in relazione all’intera teoria lombrosiana, al di là degli opposti atteggiamenti o incondizionatamente entusiasti (10) o, all’opposto, incondizionatamente critici (11).
Avv. Antonio Salvatore


Note:
1)Dossi C., “Genio e Follia”, in “La Riforma”, Roma, 11 marzo 1882;
2)Rondini A, “La ricezione letteraria di Cesare Lombroso nell’Ottocento”;
3)anche se va detto che Pascoli respinse il determinismo lombrosiano e, contro ogni fatalismo, sostenne l’esistenza del libero arbitrio, visto come “la macchina con cui gli uomini fabbricano il proprio avvenire” (letture tenute a Messina nel 1901 e a Pisa nel 1905);
4)Cavalli Pasini A., “La scienza del romanzo”, Bologna 1982 e Ellenberger H.F., “Histoire de la découverte de l’incosnscient”, Paris, 1994;
5)Calvino I, “Visibilità”, in “Lezioni americane – Sei proposte per il prossimo millennio”, Milano, 2009, p. 91;
6)De Leonardis G., Dante isterico, in “Giornale Dantesco”, Roma-Venezia, 1895 p. 211;
7)Frigessi D., “Scienza e letteratura: Cesare Lombroso e alcuni scrittori di fine secolo”.
8)De Roberto F., “Un nemico dell’arte”, in “Corriere della Sera” del 24 dicembre 1897;
9)Guarnieri L., “L’atlante criminale – vita scriteriata di Cesare Lombroso”, Milano, 2000, p. 163 e ss;
10)ci si riferisce a Bulferetti L., autore di una celebre biografia di Cesare Lombroso, “Cesare Lombroso”, Torino, 1975;
11)lo stesso Guarnieri L, “op. cit.” e Colombo G., “La scienza infelice”, Torino, 1975.

Avv. Antonio Salvatore

mercoledì 25 marzo 2009

LE RONDE: LE RAGIONI DEL NO

Prima di affrontare il tema del presente intervento, che rientra nel più ampio dibattito - particolarmente acceso in questi ultimi tempi (meno per ragioni “nobili” che meramente elettorali) - della “sicurezza”, appare necessario prendere le mosse dai dati ufficiali diffusi dal Ministero dell'Interno, che danno conto di una costante e progressiva diminuzione del fenomeno criminale, sin dal secondo trimestre dell'anno 2007.
Nell'anno 2008, gli omicidi volontari sono al minimo storico, i furti sono diminuiti del 39,72% rispetto all'anno precedente, le rapine del 28,8%, l'usura del 10,4%, la ricettazione del 31,6%, il riciclaggio del 5,8%, le minacce del 22,1%.
Gli stessi dati ci dicono che anche i reati di violenza sessuale sono diminuiti dell'8,4% e che la maggior parte degli “stupri” si consuma entro le mura domestiche: i dati relativi all'anno 2007 ci dicono che il 69,70% è opera di partner, il 17,4% di un conoscente e solo il 6,2% è opera di estranei.
Da tali dati emerge, dunque, come la sicurezza delle persone sia oggi maggiormente assicurata rispetto al passato e che se un bisogno di sicurezza emerge, esso sta nell'assicurare, per restare nel campo della violenza sessuale, la tutela delle donne dalle offese delle persone a loro più vicine.
Ancora, per venire alla nostra Regione, secondo il sesto rapporto CNEL denominato “Indici di integrazione degli immigrati in Italia”, con il 4,3%, l'Emilia Romagna è sesta in Italia per percentuale di stranieri denunciati penalmente nell'anno 2005 sul totale dei soggiornanti, in linea con la media nazionale. Dallo stesso rapporto emerge come il Nord Italia (dove, va ricordato, risiede il 60% degli immigrati che vivono in Italia), nel suo insieme, è l'unica area in cui i livelli di questo fenomeno sono complessivamente al di sotto della media nazionale, a dispetto del binomio (meglio sarebbe dire “assioma indimostrato”) “immigrazione-insicurezza”, su cui un'ampia classe politica, proveniente proprio dal Nord Italia, impernia le proprie politiche migratorie.
Nonostante tutto questo, in nome della “sicurezza”, il Governo ha approvato un decreto (il decreto legge 23 febbraio 2009 n. 11) che rischia di agevolare l'istinto dei cittadini a dar sfogo ad insane voglie di ritorsioni, sminuendo l'operato delle forze dell'ordine.
Se i dati del Ministero dell'Interno dicono il vero, le pretese misure sulla sicurezza dei cittadini, talune delle quali avallate dalla stessa opposizione, lungi dal garantire più sicurezza, nascondono soltanto una forte voglia di “ordine pubblico” a tutti i costi.
Le norme varate dal Governo e quelle che ci si appresta a varare sono di tale eccezionalità rispetto al sistema di valori costituzionali da poter trovare giustificazione soltanto in un'altrettanto eccezionale messa a rischio di diritti fondamentali della persona: ma, per le ragioni sopra esposte, così non è e tali interventi non trovano altra giustificazione che quella di veder affermate ragioni ideologiche e di ordine pubblico di triste memoria.
Venendo al tema, desta grave preoccupazione l'art. 6 del decreto n. 11, che legittima gli individui a fare giustizia in proprio “unendosi in associazioni...al fine di segnalare agli organi di polizia locale, ovvero alle Forze di polizia dello Stato, eventi che possano arrecare danno alla sicurezza urbana ovvero situazioni di disagio sociale”, così ponendo pericolose premesse all'intensificarsi di tensioni sociali e fenomeni di intolleranza o peggio ancora di giustizia “di piazza”, recentemente e tristemente tornati all'onore della cronaca.
Le cosiddette “ronde” di cittadini in funzione di sicurezza pubblica sono disciplinate dall'art. 6 del decreto legge n. 11/2009, rubricato “piano straordinario di controllo del territorio”, da attuarsi, per quanto concerne il tema oggetto del presente intervento, attraverso la possibilità, riconosciuta ai sindaci, previa intesa con il prefetto, di avvalersi della collaborazione di associazioni tra cittadini non armati al fine di segnalare alle Forze di polizia dello Stato o locali, eventi che possano arrecare danno alla sicurezza urbana ovvero situazioni di disagio sociale (comma terzo dell'art. 6).
Il comma quinto dell'art. 6 precisa che la scelta, da parte dei sindaci, deve essere effettuata, in via prioritaria, tra le associazioni costituite tra appartenenti, in congedo, alle Forze dell'ordine, alle Forze armate e agli altri Corpi dello Stato, sempre che tali associazioni risultino iscritte nell'elenco tenuto appositamente dal prefetto.
In tale elenco (periodicamente monitorato dal prefetto), le associazioni suddette possono essere iscritte a condizione di non essere “destinatarie a nessun titolo di risorse economiche a carico della finanza pubblica”, a eccezione di quelle costituite tra gli appartenenti, in congedo, alle Forze dell'ordine, alle Forze armate e agli altri Corpi dello Stato. Il prefetto dovrà verificare, in sede di iscrizione, sentito il Comitato provinciale per l'ordine e la sicurezza pubblica, il possesso, da parte dell'associazione, dei requisiti richiesti.
Va segnalata l'estrema (e pericolosa) vaghezza (nel senso di indeterminatezza) delle disposizioni appena menzionate, sia in relazione ai compiti che queste associazioni sono chiamate a svolgere, sia in riferimento alla loro struttura, ai loro requisiti e a quelli dei soggetti alle stesse iscritti.
Non è chiaro, anzitutto, che cosa debba intendersi per “collaborazione” ai sindaci al fine di segnalare “eventi che possano arrecare danno alla sicurezza urbana ovvero situazioni di disagio sociale”.
Ammesso che (l'inedito) concetto di “sicurezza urbana” coincida con quello di “sicurezza pubblica”, concetto, quest'ultimo, più ampio di quello meramente connesso ai reati, proprio con riferimento ai reati, non sembra che, allo stato, sussista un “dovere generale”, in capo al sindaco, di denunciare tutti i reati (di qualunque tipo) commessi nel territorio di competenza. Tale obbligo, attualmente, sussiste solo per i reati di cui il sindaco, quale pubblico ufficiale nell'esercizio delle sue funzioni, venga a conoscenza.
Non si tratta di questione di poco conto, dal momento che attiene alla qualifica da riconoscere agli appartenenti alle associazioni nello svolgimento dei loro compiti: se si tratta, come sembra di capire, di compiti propri del sindaco, che per il loro svolgimento si avvale della collaborazione delle associazioni, allora bisognerà ritenere, ai sensi dell'art. 357 del codice penale, che i componenti delle associazioni, nello svolgimento di tali compiti, siano pubblici ufficiali. E' davvero questo quello che si vuole?
Per quanto riguarda l'espressione “situazioni di disagio sociale”, l'impressione è quella che il legislatore consideri il disagio sociale alla stregua di problema di “ordine pubblico”, da attrarre in un circuito repressivo poliziesco, piuttosto che in quello di prevenzione e ausilio di carattere sociale.
Desta profonda inquietudine, poi – rappresentando il primo passo dello Stato di diritto verso la “privatizzazione della giustizia penale” e dunque verso l'abisso – il fatto che il decreto legge non escluda (e quindi consenta) che i “volontari per la sicurezza” possano essere finanziati da privati, sia persone fisiche che giuridiche.
Nulla il decreto dice in merito ai requisiti che gli eventuali finanziatori delle associazioni dovrebbero possedere.
Di requisiti, infatti, si parla solo in relazione agli associati (essere immuni da precedenti penali, dall'applicazione di misure di prevenzione e da carichi pendenti e, se quest'ultima interpretazione è esatta, non dotati di licenza di porto d'arma, come si ricava dal fatto che le associazioni devono essere costituite “tra cittadini non armati”).
Come è stato efficacemente rilevato (Vladimiro Polchi, La Repubblica del 26 febbraio 2009), il rischio è quello di uno “squadrismo” pagato da quella parte della popolazione che non si sente sufficientemente protetta, istituzionalizzando un rapporto mafioso del tipo: “io ti proteggo, tu mi paghi”.
A quest'ultimo proposito, il delegato del Cocer (il “sindacato” dei Carabinieri), Alessandro Rumore, ha rimarcato come in molte Regioni italiane molti Comuni siano infiltrati dalla criminalità mafiosa e affidando ai sindaci “in odor di mafia” i poteri di gestire le ronde si rischierebbe che i volontari siano gestiti da coloro che, in teoria, dovrebbero contribuire a combattere.
A “bocciare” il sistema delineato nel decreto legge, infatti, sono anche i sindacati delle forze di polizia.
Il Cocer ha definito tale sistema “impraticabile” e ha ricordato come i recenti scontri tra “no-global” e volontari delle ronde abbiano imposto alle forze dell'ordine, intervenute per sedare i tafferugli, un dispendioso lavoro, distogliendole dai loro compiti di sicurezza giornalieri.
Secondo il Cocer, “ i Carabinieri producono il 55% dell'attività operativa rispetto a tutte le altre forze di polizia”, e lo stesso Cocer si è opposto, con fermezza, all'istituzione di ronde di vigilanza composte da cittadini”, sottolineando come la sicurezza non sia da perseguire con le ronde, ma debba fondarsi su due pilastri fondamentali: “l'incremento delle risorse economiche da destinare alle Forze dell'ordine (ricordando che alla polizia e ai carabinieri mancano oltre diecimila uomini) e la costruzioni di nuovi istituti di pena, al fine di scongiurare il rischio di un nuovo indulto”.
Anche il locale rappresentante del Siulp (il sindacato della Polizia di Stato), Mauro De Marchi, ha dichiarato (cfr. il Resto del Carlino, 12 marzo 2009) che “l'istituzione delle ronde è la cosa più inutile, pericolosa e dannosa che potessero fare. Coinvolgere ex appartenenti alle forze dell'ordine significa coinvolgere persone avanti con l'età, con una reattività e una sensibilità diverse rispetto a chi è addestrato. Viceversa, coinvolgere i giovani significa esporsi al rischio che l'inesperienza e l'eccesso di impulsività possano essere più dannosi che utili. Sarebbe più utile una riorganizzazione delle diverse forze dell'ordine”.
Ad avviso di chi scrive, l'istituzione delle “ronde” altro non è che l'indice dell'incapacità dello Stato di garantire sicurezza ai cittadini.
Occorrerebbe incrementare le risorse da destinare alle Forze di polizia e promuovere intese tra i Comuni e tali forze, onde organizzare presidi nei “punti caldi” del territorio di competenza e, in generale, attività di controllo di tale territorio.
Avv. Antonio Salvatore

martedì 10 febbraio 2009

CURRICULUM VITAE AVV. ANTONIO SALVATORE

Avv. Antonio Salvatore
Piazza Sacrati n. 11 – 44121 FERRARA
I T A L I A
tel. e fax 0532 242582
E-mail: avvocato-salvatore@libero.it
www.avvocatosalvatore.blogspot.com
______________________

A. Dati personali:

Luogo e data di nascita : Ferrara, 23 novembre 1969

Lingua madre : Italiano

Altre Lingue (parlate e scritte) : Francese, Inglese, Spagnolo, Portoghese, Sloveno, Croato

Cittadinanza : Italiana

B. Studi:

1989 - 1993 Università di Ferrara, Laurea in giurisprudenza

C. Attività professionale:

1998 - oggi : Attività di Avvocato Libero Professionista Patrocinante in Cassazione


D. Opere Collettanee:

2012
Nel volume "Il danno ambientale" (ed. Giappichelli), ha pubblicato lo scritto dal titolo: "Il regime penalistico della gestione di rifiuti non autorizzata e della bonifica dei siti inquinati".

2004
Pareri motivati su quesiti proposti in materia di diritto penale – Ristampato e aggiornato nell’anno 2007 (ed. Cedam).


E. Articoli

2016
"Il dialogo tra le Corti alla luce della sentenza Taricco: riflessi in tema di responsabilità ex d.lgs. 231/2001", in  "La responsabilità amministrativa delle società e degli enti", n. 1 (gennaio - marzo 2016)

2015
"Il moderno diritto penale dell'ambiente e la responsabilità degli enti nella prospettiva dell'ermeneutica gadameriana", in  "La responsabilità amministrativa delle società e degli enti", n. 4  (ottobre - dicembre 2015)
"L'interferenza della dichiarazione di fallimento rispetto al procedimento ex d.lgs. 231/2001, con particolare riguardo alla legittimazione del curatore a impugnare il provvedimento di sequestro ex artt. 19 e 53 (commento a Cass. Pen., n. 11170, 17 marzo 2015)", in  "La responsabilità amministrativa delle società e degli enti", n. 2  (aprile - giugno 2015)
"Chi schiaffeggia chi", in Mondoperaio, fascicolo n. 4, aprile 2015
"Non di solo Jobs Act", in Mondoperaio, fascicolo n. 6, giugno 2015 

2014
"La Direttiva 2014/42/UE: il difficile equilibrio tra il contrasto della criminialità transfrontaliera e il rispetto delle garanzie e la tutela dei diritti della persona", in "La responsabilità amministrativa delle società e degli enti", n. 4 (ottobre - dicembre 2014)
"Il sequestro preventivo dei beni della persona giuridica: le sezioni unite compongono il contrasto", in "Studium Iuris", fascicolo n. 12, 2014, p. 1400
"La scienza inesatta", in Mondoperaio, fascicolo n. 12, dicembre 2014, p. 50
"Da Voltaire a Norimberga", in Mondoperaio, fascicolo n. 10, ottobre 2014, p. 48
"La protezione penale del patrimonio culturale e del paesaggio: dal codice penale Rocco al codice dei beni culturali e del paesaggio. Riflessi ex d. lgs. 231/2011", in "La responsabilità amministrativa delle società e degli enti", n. 1 (gennaio - marzo 2014)
"L'adeguatezza della compliance va valutata secondo un approccio sostanzialista", sul portale "on-line", sezione "Interventi", della Rivista "La responsabilità amministrativa delle società e degli enti", mese di novembre 2014
"Per le Sezioni Unite il curatore fallimentare non è legittimato a impugnare il provvedimento di sequestro ex art. 19 del d. lgs. n. 231/2001", sul portale "on-line", sezione "Interventi", della Rivista "La responsabilità amministrativa delle società e degli enti", mese di ottobre 2014
"La combustione illecita di rifiuti dopo la legge di conversione", sul portale "on-line", sezione "Interventi", della Rivista "La responsabilità amministrativa delle società e degli enti", mese di febbraio 2014
"Il nuovo reato di combustione illecita di rifiuti", sul portale "on-line", sezione "Interventi", della Rivista "La responsabilità amministrativa delle società e degli enti", mese di gennaio 2014

2013
"Ulteriori riflessioni su atti persecutori sui luoghi di lavoro e d. lgs. 231/2001", in "La responsabilità amministrativa delle società e degli enti", n. 3 (luglio - settembre 2013)
"Il fallimento della società non determina l'estinzione dell'illecito amministrativo da reato (commento a Cass. Pen., sez. V, 15 novembre 2012, n. 44824)", in "La responsabilità amministrativa delle società e degli enti", n. 2 (aprile - giugno 2013)

2012
"Atti persecutori sui luoghi di lavoro e legge 231. Profili di colpa di organizzazione e prospettive de iure condendo", in "La responsabilità amministrativa delle società e degli enti", n. 3 (luglio - settembre 2012)
Nota a Tribunale di Novara, 26 ottobre 2010, n. 423, in "La responsabilità amministrativa delle società e degli enti" n. 1 (gennaio - marzo 2012)

2011
Nota a Cassazione Penale, Sez. IV, 1 dicembre 2010, n. 42465, in "Ambiente & Sicurezza" - ed. Il Sole 24Ore, n. 7 del 19 aprile 2011

2010
"La natura pubblicistica non è condizione sufficiente per l'esonero 231 dell'ente (nota a Cass. pen., sez. II, 21 luglio 2010 n. 28699", in "Ambiente & Sicurezza" - ed. Il Sole 24Ore, n. 21 del 9 novembre 2010
"Risvolti letterari nella vita di Lombroso", in "Quaderni della Dante", n. XV (2009-2010)
Nota a Tribunale di Milano, Giudice per l'udienza preliminare, 17 novembre 2009, in "Ambiente & Sicurezza" - ed. Il Sole 24Ore, n. 10 del 25 maggio 2010
Nota a Tribunale di Trani, sezione distaccata di Molfetta, 26 ottobre 2009, in "Ambiente & Sicurezza" - ed. Il Sole 24Ore, n. 7 del 6 aprile 2010
"La delega di funzioni: significato e valenza del Modello Organizzativo alla luce del testo novellato dell'art. 16, comma 3, d. lgs. 81/2008", in "La responsabilità amministrativa delle società e degli enti" n. 1 (gennaio - marzo 2010), p. 43 e ss.

2009
"Il restyling della delega ai sensi del D. Lgs. 106/2009", in "Ambiente & Sicurezza" - ed. Il Sole 24Ore, n. 23 dell'8 dicembre 2009
"Il confine orientale. Aspetti storico-giuridici", in "Quaderni della Dante", n. XIV (2008-2009)
"L'interruzione della prescrizione nel sistema del d. lgs. n. 231/2001", in "La responsabilità amministrativa delle società e degli enti" n. 2 (aprile - giugno 2009), p. 129 e ss.
“L'”ingresso” della “prova scientifica” nel sistema del d. lgs. n. 231/2001”, in “La responsabilità amministrativa delle società e degli enti” n. 1 (gennaio – marzo 2009), p. 145 e ss.

2008
“La resistenza all’ordine illegittimo dell’autorità: dalla legittimità al dovere”, in “Quaderni della Dante”, n. XIII (2007-2008)
“Il sistema di sanzioni interne a garanzia dei modelli ex 231”, in “Ambiente & Sicurezza” – ed. Il Sole 24Ore, n. 15 del 29 luglio 2008
“Secondo l’Agenzia Europea, la valutazione economica è connessa alla prevenzione”, in “Ambiente & Sicurezza” – ed. Il Sole 24Ore, n. 3 del 5 febbraio 2008
“L’analisi economica del diritto alla base del codice etico”, in “Ambiente & Sicurezza” – ed. Il Sole 24Ore, n. 20 del 28 ottobre 2008
“Il Codice Etico: rapporti con il modello organizzativo nell’ottica della Responsabilità Sociale dell’Impresa”, in “La responsabilità amministrativa delle società e degli enti” n. 4 (ottobre – dicembre 2008), p. 67 e ss.

2007
“Dante e il diritto penale”, in “Quaderni della Dante”, n. XII (2006-2007)
Ha curato la ristampa dell’opera di C. De Antonellis, “De’ principi di diritto penale che si contengono nella Divina Commedia” (Città di Castello, 1894), aggiungendovi una prefazione

1999
“Omessa convocazione dell’assemblea e responsabilità penale”, in “Rivista Trimestrale di diritto penale dell’economia”, Anno XII, n.1-2 gennaio – giugno 1999

1997
“L’interruzione della prescrizione del reato, in generale, e del reato tributario, in particolare”, in “Rivista Trimestrale di diritto penale dell’economia”, Anno X, n.1-2 gennaio – giugno 1997
1996
“Luigi Borsari civilista”, nella rivista “Ferrara Storia”, ottobre-novembre 1996

1995
“La legge n. 489 del 1994: l’ennesima deroga al principio dell’irretroattività della disposizione penale tributaria più favorevole” , in “Rivista Trimestrale di diritto penale dell’economia”, Anno VIII, n.2-3 aprile-settembre 1995

F. Lezioni, Convegni e Seminari

2014
Nell'ambito del seminario organizzato dall'Ordine Avvocati di Rovigo dal titolo "Le misure cautelari personali e reali nella recente giurisprudenza", ha tenuto la relazione dal titolo "Il sequestro preventivo dei beni della persona giuridica alla luce della recente giurisprudenza delle Sezioni Unite".
Per la Scuola Forense di Rovigo ha tenuto la lezione dal titolo: "Il diritto penale dell'impresa al tempo della crisi".
Nel convegno organizzato dalla Sezione di Scienze Neurologiche Psichiatriche e Psicologiche del Dipartimento di Scienze Biomediche e Chirurgico Specialistiche dell'Università degli Studi di Ferrara, dal titolo "Percorrendo le vie della psicopatologia...Il viaggio di Marino Gatti", ha tenuto la relazione dal titolo: "Il demone della paura: l'ossessione immunitaria nella società del rischio e l'ipertrofia del diritto penale".
Per la Scuola Forense della Fondazione Forense Ferrarese ha tenuto la lezione dal titolo: "Le fonti del diritto dell'Unione Europea".
Nell'ambito dell'XIII Corso di primo livello per la formazione all'esercizio della funzione difensiva penale e del XI Corso di aggiornamento avvocati 2013 - 2014 della Camera Penale Ferrarese, ha tenuto la lezione dal titolo: "L'eterno conflitto tra determinismo e libero arbitrio: imputabilità e capacità di partecipare coscientemente al processo".

2013
Per la Scuola Forense di Rovigo ha tenuto la lezione dal titolo: "Gli atti persecutori: dal femminicidio al mobbing".
Nell'ambito del Secondo Corso della Scuola di Alta Formazione dell'Avv. Penalista, presso la Sede nazionale di Roma dell'Unione delle Camere Penali Italiane, in qualità di docente, ha tenuto la lezione dal titolo: "I reati ambientali e la responsabilità ex D. Lgs. n. 231/2001".
Per la Scuola Forense della Fondazione Forense Ferrarese ha tenuto la lezione dal titolo: "Le fonti del diritto dell'Unione Europea".
Per i Dirigenti Sindacali della Federazione Italiana Bancari e Assicurativi - F.I.B.A. C.I.S.L. - di Ferrara, ha tenuto la lezione dal titolo "Il mobbing: profili giurisprudenziali".
Nell'ambito dei "Tavoli di lavoro" organizzati dalla Rivista "La responsabilità amministrativa delle società e degli Enti", dal titolo "Novità normative, giurisprudenza recente e adeguamento dei modelli", ha tenuto la relazione dal titolo "Mobbing e d. lgs. n. 231/2001".

2012
Nell'ambito della presentazione del saggio "L'umanità vittima dei crimini ambientali: danno, percezione, rimedi" (Viator Editore), è intervenuto con la relazione dal titolo: "D. leg.vo 231/2001 e reati ambientali".
Nell'ambito del Primo Corso della Scuola Nazionale di Alta Formazione dell'Avvocato Penalista, presso la sede nazionale di Roma dell'Unione delle Camere Penali Italiane, in qualità di docente, ha tenuto la lezione dal titolo: "Reati ambientali".
Per il Comitato di Ferrara della Società Dante Alighieri, ha tenutopresso la Sala dell'Arengo la relazione dal titolo "Luigi Borsari giurista e patriota".
Ha presentato e coordinato il convegno dal titolo "Le indagini scientifiche in ambito forense", organizzato dalla Camera Penale Ferrarese e tenutosi presso l'Aula Magna del Dipartimento di Scienze Giuridiche dell'Università di Ferrara.
Per la Scuola Forense dell'Ordine degli Avvocati di Rovigo, ha tenuto una lezione-caso pratico in materia di imputabilità.
Nell'ambito del IV° Corso di Deontologia organizzato dalla Camera Penale Ferrarese ha tenuto la lezione dal titolo: "Le sanzioni disciplinari per la violazione delle norme deontologiche, con accenni alla riforma dell'ordinamento forense".
Per l'Università di Ferrara, Dipartimento di discipline medico-chirurgiche della comunicazione e del comportamento, Sezione di Clinica Neurologica, Scuola di Specializzazione in Neurologia, ha tenuto un seminario dal titolo: "Patologie neurologiche, comportamento criminale e responsabilità penale".
Per l'Università I.U.A.V. di Venezia, ha tenuto la lezione dal titolo: "La disciplina penalistica relativa alla bonifica dei siti inquinati e alla gestione di rifiuti non autorizzata".
Nell'ambito dell'XI Corso di primo livello per la formazione all'esercizio della funzione difensiva penale e del IX Corso di aggiornamento avvocati 2011 - 2012 della Camera Penale Ferrarese, ha tenuto la lezione dal titolo: "Il regime penalistico della gestione di rifiuti non autorizzata e della bonifica dei siti inquinati".
Nell'ambito del III° Corso di Deontologia organizzato dalla Camera Penale Ferrarese ha tenuto la lezione dal titolo: "Deontologia dell'avvocato penalista - Le indagini difensive".
Svolge la funzione, presso la Corte di Appello di Bologna, di Presidente della IV Sottocommissione Esami Avvocato per la sessione 2011. 


2011
Nel  convegno (organizzato dalla Sezione di Clinica Neurologica Dipartimento di Discipline Medico Chirurgiche della Comunicazione e del Comportamento dell'Università di Ferrara, Scuole di specializzazione in Neurologia e Neurochirurgia) dal titolo "L'aggressività nel paziente affetto da demenza, aspetti clinici, neurologici e forensi", ha tenuto la relazione dal titolo: "La capacità di stare in giudizio nel paziente affetto da demenza".
Nell'ambito del X Corso di primo livello per la formazione all'esercizio della funzione difensiva penale e dell'VIII Corso di aggiornamento avvocati 2010 - 2011 della Camera Penale Ferrarese, ha tenuto la lezione dal titolo: "Disciplina delle sanzioni previste per la violazione delle norme deontologiche".
Nell'ambito del Corso dell'Istituto di Applicazione Forense ha svolto le seguenti lezioni: "La responsabilità penale delle persone giuridiche: aspetti processuali e sostanziali"; "La prova scientifica"; "I reati tributari".
Nell'ambito del II° Corso di Deontologia organizzato dalla Camera Penale Ferrarese ha tenuto la lezione dal titolo: "Le sanzioni disciplinari per la violazione delle norme deontologiche, con accenni alla riforma dell'ordinamento forense".
Nell'ambito del X Corso di primo livello per la formazione all'esercizio della funzione difensiva penale e dell'VIII Corso di aggiornamento avvocati 2010 - 2011 della Camera Penale Ferrarese, ha tenuto la lezione dal titolo: "La sospensione del procedimento per incapacità di stare in giudizio dell'indagato e dell'imputato".

2010
Nel convegno (organizzato dalla Sezione di Clinica Neurologica Dipartimento di Discipline Medico Chirurgiche della Comunicazione e del Comportamento dell'Università di Ferrara) dal titolo "Sherlock Holmes: tra semeiotica medica e tecniche investigative", ha tenuto la relazione dal titolo: "La prova scientifica nel processo penale, con particolare riferimento all'epistemologia dell'investigazione".
Nell'ambito del X Corso di primo livello per la formazione all'esercizio della funzione difensiva penale e dell'VIII Corso di aggiornamento avvocati 2010 - 2011 della Camera Penale Ferrarese ha tenuto, unitamente alla Dott.ssa Cinzia Romagnoli, la lezione dal titolo: "Profili deontologici dell'avvocato penalista e strategie comunicative".
Nel convegno (organizzato dal Comune di Ferrara e dal Comitato di Ferrara della Società Dante Alighieri) sul 150° dell'Unità d'Italia, ha tenuto la relazione dal titolo: "Romagnosi e Cattaneo: due giuristi-filosofi del Risorgimento".
Nell'ambito del X Corso di primo livello per la formazione all'esercizio della funzione difensiva penale e dell'VIII Corso di aggiornamento avvocati 2010 - 2011 della Camera Penale Ferrarese ha tenuto la lezione dal titolo: "Sicurezza dei lavori nei cantieri, responsabilità penale e responsabilità dell'ente ex d. lvo. 231/2001".
Per l'Istituto di Applicazione Forense presso la Facoltà di Giurisprudenza dell'Università degli Studi di Ferrara ha tenuto la relazione dal titolo: "Tecniche argomentative e oratorie".
Nell'incontro, organizzato dal Comune di Ferrara, Università di Ferrara e Società Dante Alighieri, dedicato alla presentazione dell'edizione italiana del volume di Douglas Firth "Il caso di Augusto D'Este", è intervenuto con la relazione "L'esperienza della malattia nella letteratura".
Per l'Istituto di Applicazione Forense presso la Facoltà di Giurisprudenza dell'Università degli Studi di Ferrara ha tenuto la relazione dal titolo: "Soggetto attivo del reato e delega di funzioni".
Nel convegno (organizzato dalla Facoltà di medicina dell'Università di Ferrara e dalla Società Dante Alighieri) dal titolo: “Genio e follia”, ha tenuto la relazione: “Risvolti letterari nella vita di Lombroso”.
Nell'ambito del I° Corso di Deontologia organizzato dalla Camera Penale Ferrarese, ha tenuto la lezione dal titolo: "Le sanzioni disciplinari per la violazione delle norme deontologiche".
Nell'ambito del IX Corso di primo livello per la formazione all'esercizio della funzione difensiva penale e del VII Corso di aggiornamento avvocati 2009 - 2010 della Camera Penale Ferrarese ha tenuto la relazione dal titolo: "I soggetti attivi del reato, con particolare riferimento alla delega di funzioni".

2009
Per l'Istituto di Applicazione Forense presso la Facoltà di Giurisprudenza dell'Università degli Studi di Ferrara ha tenuto la relazione dal titolo: "La responsabilità da reato delle persone giuridiche".
Nel convegno tenutosi a Bolzano, organizzato dalla locale Camera Penale in collaborazione con la Camera penale ferrarese dal titolo: "Nuove frontiere nella responsabilità medica. Dalla responsabilità penale alla responsabilità civile, verso la responsabilità oggettiva. Dalla responsabilità del medico alla responsabilità della struttura", ha tenuto presso l'Auditorium della I.T.I. "G. Galilei" di Bolzano, la relazione dal titolo: "La responsabilità amministrativa degli Enti operanti nel settore sanitario".
Nell'ambito della "tavola rotonda" organizzata dalla Camera civile di Ferrara, Camera penale di Ferrara, Università di Ferrara e Fondazione Forense Ferrarese in tema di responsabilità medica, ha tenuto presso l'Aula Magna della Facoltà di Giurisprudenza dell'Università di Ferrara la relazione dal titolo: "La responsabilità amministrativa degli Enti operanti nel settore sanitario: rapporti tra norme tecniche e modelli di organizzazione ex d. lgs. n. 231/2001".
Nell'ambito del VIII Corso di primo livello per la formazione all'esercizio della funzione difensiva penale e del VI Corso di aggiornamento avvocati 2008 - 2009 della Camera Penale Ferrarese ha tenuto la relazione dal titolo: "I reati tributari".
Nel convegno (organizzato dall’Istituto di Storia Contemporanea di Ferrara e dalla Società Dante Alighieri, Comitato di Ferrara in occasione del “Giorno del ricordo”) dal titolo: “Il lungo esodo”, ha tenuto la relazione: “Il confine orientale: aspetti storico-giuridici”.
Per la Scuola Forense (Ordine Avvocati e Università Studi di Ferrara) ha tenuto la relazione dal titolo: “La responsabilità degli enti derivante da reato: aspetti sostanziali e processuali”.

2008
Quale membro del Comitato scientifico del Gruppo di lavoro sul decreto legislativo n. 231/2001 presso “Interprofessional Network” S.P.A. di Verona, ha tenuto la relazione dal titolo: “Le sanzioni interne ed esterne”.
Quale membro del Comitato scientifico del Gruppo di lavoro sul decreto legislativo n. 231/2001 presso “Interprofessional Network” S.P.A. di Verona, ha tenuto la relazione dal titolo: “Il codice etico”.
Quale membro del Comitato scientifico sul Gruppo di lavoro sul decreto legislativo n. 231/2001 presso “Interprofessional Network” S.P.A. di Verona, ha tenuto la relazione dal titolo: “L’organismo di vigilanza”.
Nell’ambito del VIII Corso di primo livello per la formazione all’esercizio della funzione difensiva penale e del V Corso di aggiornamento avvocati 2008 – 2009 della Camera Penale Ferrararese ha tenuto la lezione dal titolo: “La prova scientifica nel processo penale”.
Per la Scuola Forense (Ordine Avvocati e Università Studi di Ferrara) ha tenuto la relazione dal titolo: “La prova scientifica nel processo penale”
Per la Scuola Forense (Ordine Avvocati e Università Studi di Ferrara) ha tenuto la relazione dal titolo: “La responsabilità degli enti derivante da reato: aspetti sostanziali e processuali”
Nel convegno (organizzato dalla Prefettura di Ferrara, dall’Istituto di Storia Contemporanea di Ferrara e dalla Società Dante Alighieri, Comitato di Ferrara) dal titolo: “A settant’anni dalle leggi razziali. Il diritto negato”, ha tenuto la relazione: “La resistenza all’ordine illegittimo dell’autorità: dalla legittimità al dovere”.
Ospite dell’”intermeeting” organizzato dalla IV Circoscrizione del Lions Club di Ferrara, ha tenuto la relazione dal titolo “Libertà e Giustizia”.
Nell’ambito del VII Corso di primo livello per la formazione all’esercizio delle funzione difensiva penale e del V Corso di aggiornamento avvocati 2007 – 2008 della Camera Penale Ferrarese ha tenuto la lezione dal titolo: “La responsabilità degli enti derivante da reato: aspetti sostanziali e processuali”.
Associazione Piccole e Medie Industrie della Provincia di Ferrara ha tenuto la relazione dal titolo: “La responsabilità degli enti derivante da reato e la predisposizione dei modelli organizzativi”.
Nel convegno tenuto presso l’Università di Ferrara, dal titolo: “D. lgs. 231/2001 – La responsabilità “penale” delle persone giuridiche. Modelli organizzativi: aspetti e problematiche”, organizzato da “Il Sole 24 Ore”, Camera Penale di Ferrara, Camera Penale di Rovigo, in collaborazione con “Interprofessional Network”, ha tenuto la relazione dal titolo: “Le sanzioni esterne ed interne”.
Nel convegno tenuto presso l’Auditorium della Provincia di Venezia, dal titolo: “D. lgs. 231/2001 – La responsabilità “penale” delle persone giuridiche. Modelli organizzativi: aspetti e problematiche”, organizzato da “Il Sole 24 Ore”, Camera Penale Veneziana, in collaborazione con “Interprofessional Network”, ha tenuto la relazione dal titolo: “Le sanzioni, con particolare riferimento all’art. 25 septies”.
Nel convegno tenuto presso il Palazzo Gualdo, sede dell’Ordine degli Avvocati di Vicenza, dal titolo: “D. lgs. 231/2001 – La responsabilità “penale” delle persone giuridiche. Modelli organizzativi: aspetti e problematiche”, organizzato da “Il Sole 24 Ore”, Camera Penale Ferrarese, Camera Penale di Rovigo e Camera Penale di Vicenza, in collaborazione con “Interprofessional Network”, ha tenuto la relazione dal titolo: “Le sanzioni esterne ed interne”.

2007
Per la Società “Dante Alighieri”, Comitato di Ferrara ha tenuto la relazione dal titolo: “Dante e il diritto penale”, presso Sala Arengo del Palazzo Comunale, in occasione delle celebrazioni del 50° anniversario del Trattato di Roma


G. Partecipa alle seguenti Organizzazioni:

Fa parte del Corpo Docente per il Corso della Scuola Nazionale di Alta Formazione dell'Avvocato Specialista della Unione delle Camere Penali Italiane
Ordine degli Avvocati di Ferrara (iscritto)
Albo Speciale Patrocinanti in Cassazione e davanti alle altre Giurisdizioni Superiori
Coordinatore scientifico del Gruppo di lavoro, sul decreto legislativo n. 231/2001, di “Interprofessional Network” S.P.A. di Verona
Collaboratore della Rivista Mondoperaio

lunedì 9 febbraio 2009

IL CONFINE ORIENTALE: ASPETTI STORICO GIURIDICI

Relazione tenuta dall'Avv. Antonio Salvatore nel convegno “Il lungo esodo” il 10 febbraio 2009 presso la Biblioteca Ariostea di Ferrara

Si ritiene di far precedere la trattazione dell'oggetto principale della presente relazione – vale a dire la vexata quaestio dei cc.dd. “beni abbandonati” - da una veloce disamina degli strumenti di diritto internazionale che stanno, per così dire, sullo sfondo della delicata questione e dalla conoscenza dei quali è impossibile prescindere per il corretto inquadramento della stessa.
Il 10 febbraio 1947, a Parigi, venne, come noto, firmato il Trattato di Pace tra l'Italia e le Potenze alleate e associate (tra cui la Jugoslavia).
Trattato assai contestato a livello non solo politico ma anche dottrinale, in quanto imposto all'Italia senza alcuna possibilità di negoziazione (sarà definito, perciò, “Diktat”), segnando in maniera drammatica le sorti del “confine orientale” italiano.
Il Trattato di Pace comportò la cessione, alla Jugoslavia, di una parte consistente dei territori acquisiti dall'Italia dopo la Prima Guerra Mondiale: ben 7.700 chilometri quadrati, comprensivi delle città di Pola, Zara, Fiume e di gran parte dell'Istria. Per effetto del Trattato venne, inoltre, costituito tra l'Italia e la Jugoslavia uno “Stato cuscinetto”, definito “Territorio Libero di Trieste” (acronimo “TFL”), risultante dalle due zone di occupazione affidate, rispettivamente, all'amministrazione militare di Gran Bretagna e Stati Uniti (“zona A”) e a quella jugoslava (“zona B”).
In seguito a difficoltà insorte, segnatamente quella legata alla mancata nomina del Governatore, la situazione delineata dal Trattato di Pace venne modificata dal “Memorandum di Londra” del 5 ottobre 1954, assegnandosi la “zona A” all'amministrazione civile italiana e la “zona B” all'amministrazione civile jugoslava.
Il “Memorandum di Londra” – oltre ad aver apposto il crisma della definitività ad un confine tratteggiato a esclusivi scopi militari (esso corrisponde, invero, a larghi tratti, alla c.d. “linea Morgan”), senza tener in nessun conto le caratteristiche storiche ed etniche delle popolazioni interessate - è stato concluso senza autorizzazione né ratifica del Parlamento italiano, dunque in aperto contrasto con l'art. 80 della nostra Costituzione.
Esso è, pertanto, un atto illegittimo in quanto stipulato in violazione di una precisa disposizione costituzionale (si ripete, l'art. 80); più precisamente si tratta di un accordo affetto da “vizio del procedimento di formazione dell'atto”.
Per quanto riguarda gli effetti di tale illegittimità, la dottrina internazionalistica tradizionalmente distingue tra quelli che il trattato produce nell'ordinamento internazionale da quelli che produce nell'ordinamento interno del singolo Stato.
Per i primi, occorre riportarsi all'art. 46 della Convenzione di Vienna del 1969 sul diritto dei Trattati. Tale convenzione ha accolto una soluzione intermedia tra due delle tesi che, storicamente, si cono contrapposte: quella denominata “dualista”, ispirata al principio della netta separazione tra ordinamento internazionale e ordinamenti interni e quella “monista”, basata sull'assunto della c.d. “unitarietà degli ordinamenti giuridici”. Per tale ultima concezione, le norme interne sulla competenza a stipulare avrebbero pieno valore anche nell'ordinamento internazionale e, quindi, la violazione di esse concreterebbe un vizio di illegittimità del consenso anche a livello internazionale.
L'articolo 46 della Convenzione di Vienna in linea di principio nega che la violazione di norme interne sulla competenza a stipulare possa essere invocata come vizio del consenso, “a meno che tale violazione non sia stata manifesta e non concerna una norma di importanza fondamentale del proprio diritto interno”. Lo stesso articolo chiarisce il concetto di “violazione manifesta”, affermando che, perché questa ricorra, occorre il requisito dell'”evidenza obiettiva” per qualsiasi Stato che si comporti, in materia, “in base alla normale prassi ed in buona fede”.
Si può affermare che, essendo l'art. 80 della Costituzione italiana una disposizione di importanza fondamentale, la violazione di esso ben può costituire un vizio del trattato come atto internazionale.
Con la legge del 14 marzo 1977 n. 73 è stato ratificato il Trattato di Osimo del 10 novembre 1975, stipulato tra Italia e Jugoslavia e finalizzato a stabilire la cooperazione pacifica e i rapporti di buon vicinato, dando così l'avvio a una nuova fase nei rapporti tra i due Paesi.
Con tale Trattato – che confermò le intese provvisorie contenute del “Memorandum” del 1954 – venne fissata definitivamente la frontiera tra i due Stati. L'Italia, con la stipula di esso, rinunciò definitivamente e senza alcuna contropartita agli ultimi lembi della penisola istriana (la cosiddetta “zona B”).
Va, infine, menzionato l'accordo di indennizzo (denominato “Trattato di Roma”) concluso il 18 febbraio 1983 tra Italia e Jugoslavia, relativo alla ex “zona B” del Territorio Libero di Trieste, che si riferisce “ai beni, diritti ed interessi” indicati nell'art. 4 del Trattato di Osimo, “oggetto di misure di nazionalizzazione o di esproprio o di altri provvedimenti restrittivi da parte delle Autorità militari, civili o locali jugoslave”.
Secondo l'accordo del 1983, tali ”beni, diritti ed interessi...sono considerati come definitivamente acquisiti dalla Repubblica socialista federativa di Jugoslavia” (art. 1), la quale si obbliga a versare “al Governo italiano, a titolo di indennizzo, la somma di 110 milioni di dollari U.S.A.” (art. 2).
Una recente indagine ha mostrato come l'indennizzo previsto dall'accordo di Roma sia tutt'altro che “equo e accettabile”, ammontando solo a pochi centesimi di dollaro per metro quadro. Nell'indagine si sono assunte tre ipotesi di lavoro: a) che i beni italiani della “zona B” fossero pari all'estensione territoriale di questa; b) che fossero pari alla metà di questa; c) che fossero pari ad un terzo di questa. Nei tre casi, si giungerebbe ai seguenti valori: a) dollari 0,208; b) dollari 0,416; c) dollari 0,312. Non sono stati considerati gli immobili, visto che il valore è stabilito “in pianta”, ossia per metro quadro di terreno. L'inadeguatezza dell'indennizzo risulta, del resto, dallo stanziamento previsto dalla proposta di legge italiana del 1996, che prevedeva la distribuzione tra gli esuli della somma di 5 mila miliardi di lire. Orbene, 110 milioni di dollari corrispondono, al cambio attuale, a meno di 110 milioni di euro, mentre 5 mila miliardi di lire corrispondono a ben 2,58 miliardi di euro.
In ogni modo, l'art. 3 del Trattato di Roma dispone che: “il pagamento verrà effettuato a partire dal primo gennaio 1990 in 13 annualità eguali con un accreditamento su un conto intestato al Ministero del Tesoro presso la Banca d'Italia in Roma”.
Ad oggi, soltanto due rate (1990 – 1991) sono state pagate dall'ex Jugoslavia, prima della sua disintegrazione (2/13 di 110 milioni di dollari, vale a dire circa 17 milioni di dollari).
Il Governo sloveno ha poi versato, in varie rate, il 60% della somma residua, depositando l'importo di 56 milioni di dollari presso una banca lussemburghese.
Il pagamento non risulta accettato dal Governo italiano.
La Croazia avrebbe dovuto versare l'altro 40%, ma non ha pagato alcunché.
La distribuzione percentuale tra Croazia e Slovenia pare sia stata definita da un accordo tra i due Stati, ma tale accordo non produce di per sé effetti nei confronti dell'Italia, che non risulta averne accettato il contenuto.
Gli obblighi assunti dalla Jugoslavia con gli artt. 2 e 3 dell'Accordo del 1983 non sono stati adempiuti; il carattere solidale dell'obbligazione esclude che uno dei due Stati successori possa effettuare un pagamento parziale. Pertanto, l'adempimento non è perfetto e si prospetta la possibilità per il Governo italiano di richiedere la risoluzione dell'accordo del 1983 per inadempimento della controparte.
A tale proposito va ricordato che l'art. 60, paragrafo 1, della sopra richiamata Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati del 1969 stabilisce che “una violazione sostanziale di un trattato bilaterale ad opera di una delle parti legittima l'altra a invocare la violazione come motivo di estinzione del trattato o di sospensione totale o parziale della sua applicazione”.
La violazione degli obblighi posti dagli artt. 2 e 3 dell'Accordo del 1983 ha indubbiamente carattere sostanziale poiché i versamenti sono stati interrotti dopo due anni.
La risoluzione del trattato dovrebbe aver effetto nei confronti sia della Slovenia che della Croazia, dato il carattere solidale degli obblighi che loro incombono quali successori della Jugoslavia.
Va aggiunto che Slovenia e Croazia sono divenute parti della Convenzione europea dei diritti dell'uomo e del relativo Protocollo addizionale n. 1 con atti di adesione depositati, rispettivamente, il 28 giugno 1994 e il 5 novembre 1997. A seguito di tale adesione, i due Stati si sono obbligati a garantire “ad ogni persona soggetta alla loro giurisdizione i diritti e le libertà definiti al titolo I della Convenzione, oltre che quelli garantiti dai Protocolli”.
L'art. 1 del Protocollo dispone: “ogni persona fisica o giuridica ha diritto al rispetto dei suoi beni. Nessuno può essere privato dei suoi beni salvo che per causa di utilità pubblica e nelle condizioni previste dalla legge e dai principi generali del diritto internazionale.”
Le eccezioni sono previste dal successivo capoverso:
“Le disposizioni che precedono non recano pregiudizio al diritto degli Stati di mettere in vigore le leggi da essi considerate necessarie per regolare l'uso dei beni in modo conforme all'interesse generale o per assicurare il pagamento delle imposte o di altre contribuzioni o delle ammende”.
Secondo l'art. 14 della Convenzione europea il godimento dei diritti e delle libertà fondamentali deve essere assicurato senza discriminazione di alcuna specie come di sesso, razza, colore, lingua, religione, opinione politica – o di altro genere – origine nazionale o sociale, appartenenza ad una minoranza nazionale, ricchezza, nascita o altra condizione.
Tale articolo esprime il principio di “non discriminazione”.
Secondo l'interpretazione accolta dalla Corte europea dei diritti dell'uomo (a partire dal caso “Sporrong e Lonnroth c. Svezia”), l'art. 1 del Protocollo n. 1 contiene tre norme distinte: “la prima, contenuta nella prima frase del primo paragrafo, ha tenore generale e sancisce il principio del rispetto della proprietà, la seconda, enunciata nella seconda frase del medesimo paragrafo, prevede la privazione della proprietà e la sottopone a talune condizioni, la terza, espressa nel secondo paragrafo, riconosce agli Stati contraenti il potere, fra l'altro, di disciplinare l'uso dei beni conformemente all'interesse generale. Non si tratta di disposizioni prive di rapporti tra loro; la seconda e la terza si riferiscono a esempi particolari di limitazioni del diritto di proprietà e pertanto devono essere interpretate alla luce del principio sancito dalla prima”.
Quanto all'art. 14 della Convenzione, l'interpretazione corrente che ne dà la Corte è nel senso che tale disposizione costituisce un completamento delle norme sostanziali contenute nella Convenzione e nei Protocolli.
L'art. 14 non ha quindi, secondo la Corte, un'esistenza autonoma, in quanto produce effetti soltanto in relazione al godimento dei diritti e delle libertà garantiti da quelle norme.
In tale prospettiva, è stato osservato, non potrebbero essere sottoposti ad alcuna valutazione di legittimità tutti gli atti e i provvedimenti con i quali era stata a suo tempo introdotto il regime di proprietà sociale: mancherebbe, infatti, qualsiasi competenza della Corte “ratione temporis”.
Si tratta allora di verificare la possibilità di applicazione del regime convenzionale (e dei principi elaborati dalla Corte) in relazione alla normativa emanata dai due Stati (Croazia e Slovenia) dopo la fine del regime comunista, con le cc.dd. “leggi di denazionalizzazione”, provvedimenti normativi emanati dalla Croazia e dalla Slovenia, quali Stati successori della ex-Jugoslavia con i quali, per un verso, è stata abolita la c.d. “proprietà sociale”, di cui si tratterà in appresso e, per altro verso, si è disciplinato il ritorno al regime di proprietà privata (attraverso la restituzione dei beni e/o l'indennizzo ai precedenti proprietari) dei patrimoni nazionalizzati sotto il passato regime comunista e passati in mano pubblica.
Per quanto riguarda la Croazia, il testo iniziale della legge del 17 ottobre del 1996, non concedeva ai precedenti proprietari il diritto di richiedere né la restituzione né l'indennizzo, laddove alla data di entrata in vigore della legge essi non fossero in possesso della cittadinanza croata (art. 9, comma 1, “I diritti previsti da questa legge competono alle persone fisiche – precedente proprietario, ossia ai suoi eredi legittimi fino al primo grado – che nel giorno dell'entrata in vigore della presente Legge abbiano la cittadinanza croata”; la legge slovena, similmente, dispone: “Le persone fisiche avranno diritto se, al momento della nazionalizzazione del loro patrimonio, erano cittadini jugoslavi”).
La legge croata prevedeva ulteriormente (art. 10) che il diritto alla restituzione/indennizzo non esisteva laddove un trattato internazionale avesse già regolamentato la materia.
Veniva, inoltre, prescritto che le persone (fisiche e giuridiche) non aventi cittadinanza croata non fossero eleggibili, tranne nel caso in cui un trattato internazionale avesse diversamente disposto (art. 11).
La Corte Costituzionale croata venne investita della questione di costituzionalità delle previsioni della legge suddetta e in data 21 aprile1999 dichiarò incostituzionali le limitazioni riguardanti le persone fisiche (non quelle giuridiche!) straniere. Statuì la Corte che “discriminare i precedenti proprietari sulla base del possesso di un determinato “status” (come quello di cittadinanza) è ingiusto e non può essere giustificato dalla necessità di proteggere altri diritti costituzionalmente tutelati. Il diritto degli stranieri di ricevere in restituzione gli immobili dovrà essere regolato in armonia con le disposizioni di legge riguardanti il diritto degli stranieri di acquistare immobili in territorio croato”.
La Corte cassò, pertanto, l'art. 9.
Il Parlamento croato (“Sabor”), con legge 5 luglio 2002, recante “modifiche e aggiunte alla legge sull'indennizzo del patrimonio tolto durante il periodo del regime comunista jugoslavo” ha emendato la precedente legislazione del 1996, in conformità al dettato della Corte Costituzionale.
Sono state cancellate le parole contenute nell'art. 9, comma 1, relative alla “cittadinanza croata”, tuttavia la nuova legge, all'art. 2, dispone che “il proprietario precedente non ha diritto all'indennizzo del patrimonio sottratto qualora la questione dell'indennizzo è stata risolata con accordi internazionali”.
La legge croata di denazionalizzazione allude alla cittadinanza straniera anche nelle norme successive (artt. 10 e 11), che riguardano pure ipotesi coperte da accordi internazionali: (art. 10: “il precedente proprietario non ha diritto alla restituzione della proprietà tolta qualora la questione della restituzione costituisca oggetto di accordi internazionali, salvo che non sia diversamente disposto dalla legge”; art. 11, comma 1: “alle persone fisiche e giuridiche straniere non competono i diritti di questa legge”; art. 11, comma 2: “eccezionalmente, in deroga al precedente comma 1, i diritti previsti da questa legge possono essere assegnati alle persone fisiche e giuridiche quando ciò è previsto da accordi internazionali”.
Fino ad ora, l'interpretazione di tale legge è stata nel senso che, laddove lo Stato della cui cittadinanza è in possesso lo straniero non avesse concluso un trattato internazionale con la Repubblica della Croazia, ai suoi cittadini non poteva essere riconosciuto il suddetto diritto (un caso recente è stato discusso nell'aprile del 2005).
La suddetta interpretazione della normativa è stata sovvertita dalla recente decisione del 14 febbraio 2008 del Tar della Croazia, per il quale il requisito della stipulazione di un trattato internazionale non è più considerato come un elemento dirimente, nonostante il tenore letterale della norma.
Il Tar ha riconosciuto a Zlata Ebenspanger, ebrea di origini croate in seguito divenuta cittadina brasiliana (o meglio al proprio figlio, che le successe nel corso del processo dopo la sua morte), il diritto a ricevere in restituzione ovvero a ricevere un indennizzo per un'unità immobiliare sita nel centro di Zagabria e passato in mano pubblica subito dopo il secondo conflitto mondiale.
Il Tar non si è, invero, riferito alla formulazione letterale, ma ha tenuto conto del fatto che la Corte costituzionale dichiarò incostituzionale l'art. 9 nella parte in cui richiedeva il requisito della cittadinanza croata e ha concluso che il diritto a essere risarcito appartiene a tutte le persone fisiche straniere, rispetto alle quali il tema dei beni “rapinati” non ha formato oggetto di alcun trattato internazionale.
Nel caso in cui la decisione del Tar dovesse essere confermata, verrebbero repentinamente riproposte le numerose rivendicazioni da tempo congelate negli armadi del ministero degli esteri a Zagabria.
La Croazia, del resto, ha da tempo annunciato la sua intenzione di rivedere l'attuale normativa sui beni nazionalizzati, il che rappresenta anche uno degli impegni che rientrano nella trattativa della sua adesione alla UE.
La sentenza suddetta ha creato allarme non solo a Zagabria ma anche nelle amministrazioni regionali e cittadine costiere.
Da un sommario inventario, risulterebbe che nella sola Spalato le proprietà rivendicate da stranieri siano almeno 72 (case di abitazione, antichi palazzi, poderi, aree edificabili ecc.). Nella sola cinta urbana spalatina gli immobili rivendicati sarebbero oltre 40 (32 richiesti da cittadini italiani, 5 da persone residenti negli USA e 3 da cittadini tedeschi). A Zara, che detiene il primato in Dalmazia in quanto a istanze di restituzione di beni nazionalizzati, le proprietà rivendicate da stranieri sarebbero un'ottantina, fra le quali spicca la sede della “Maraska”, ossia della storica distilleria del Maraschino, rivendicata dagli eredi Luxardo. A Sebenico, si sa per certo che le proprietà rivendicate da cittadini italiani sono una decina.
Venendo alla Slovenia, la legge di denazionalizzazione del 29 novembre 1991 è stata prima emendata con legge n. 720 del 16 settembre 1998. Successivamente, la Corte Costituzionale slovena ha preso in esame tali emendamenti con la sentenza 30 settembre 1998, dichiarando l'illegittimità costituzionale dell'art. 9 della legge, che limitava il diritto alla restituzione a quanti avessero originariamente, o avessero acquistato successivamente, la cittadinanza jugoslava.
Tuttavia, l'art. 10 della legge slovena recita ancora: “non avranno diritto, ai sensi della presente legge, quelle persone fisiche che hanno percepito o avevano il diritto di percepire un indennizzo, per la sottrazione del patrimonio, da parte di uno Stato straniero”, alludendo agli accordi conclusi tra la Jugoslavia con l'Italia e con l'Austria.
Per comprendere pienamente la questione dei “beni abbandonati”, occorre prendere le mosse dal significato delle misure di “nazionalizzazione, riforma agraria o di confisca”, adottate dalle autorità jugoslave circa la proprietà dei beni a partire dal 1945.
Non si tratta di misure di esproprio – come potrebbe apparire naturale agli occhi di un osservatore occidentale – quanto, piuttosto, dell'avocazione di taluni beni ad un regime di proprietà del tutto nuovo e originale, introdotto nel diritto civile jugoslavo dopo la rivoluzione comunista e la guerra.
La proprietà sociale (drustveno vlasnistvo) è un'elaborazione socialista dei rapporti di proprietà relativi agli immobili, che vigeva nella sola Jugoslavia. Tali beni non erano di proprietà dello Stato jugoslavo, bensì della società jugoslava intesa come “pluralità di uomini e donne lavoratori”.
Tale proprietà sociale veniva soltanto concessa in uso allo Stato, agli enti locali e ai privati.
Per effetto del “Memorandum” del 1954, i beni sottratti sono stati, nella maggioranza dei casi, iscritti nei libri fondiari come proprietà sociale concessa in uso ai Comuni.
L'acquisto come “proprietà sociale” avveniva “a titolo originario” e non “derivativo”: ciò implicava la nascita di un diritto nuovo e non la cessione dell'antico.
Con le leggi di denazionalizzazione, come sopra osservato, l'istituto della “proprietà sociale” è stato abolito: i beni ritornano, ove possibile, ai proprietari di un tempo, facendo quindi nascere, oggi, un diritto alla restituzione, coniugato all'originario diritto di proprietà.
Il fatto che l'acquisto fosse avvenuto, a suo tempo, a titolo originario, indica chiaramente come, una volta abolito l'istituto della “proprietà sociale”, non possa che rivivere il diritto di proprietà, anche se alla stregua di diritto alla restituzione. Tanto è vero che la legge croata dispone la restituzione ai precedenti proprietari.
Se, viceversa, si fosse trattato di acquisto a titolo derivativo, la cessione avrebbe avuto carattere definitivo, trasferendo al cessionario la totalità dei diritti del cedente.
Considerando l'insieme degli accordi internazionali tra Italia e Jugoslavia alla luce del loro oggetto e del loro scopo (criterio interpretativo fissato dalla Convenzione di Vienna del 1969 sul diritto dei trattati), si può osservare che l'Italia:
riconosceva l'introduzione dei regimi di proprietà pubblica e sociale nell'ordinamento jugoslavo ed il conseguente mutamento che si verificava sui diritti di proprietà privata;
rinunciava a pretendere l'applicazione delle norme contenute nel Trattato di Pace riguardo ai beni dei cittadini italiani nei territori ceduti;
si obbligava a non proporre nei confronti della Jugoslavia rivendicazioni riguardo a tali beni.
Quale contropartita di quest'ultimo obbligo, di carattere negativo, la Jugoslavia si impegnava a versare all'Italia determinate somme a titolo di indennizzo; esse rappresentavano il corrispettivo della mancata restituzione dei beni prevista dai vari trattati e della sottoposizione dei beni stessi ai regimi di proprietà pubblica e sociale instaurati nell'ordinamento jugoslavo.
La presenza e la permanenza del regime proprietario in questione costituiscono il presupposto fondamentale della disciplina pattizia e la condizione logica e giuridica della sua operatività.
Con il mutamento del regime della proprietà intervenuto negli ordinamenti sloveno e croato a seguito dell'emanazione delle leggi di denazionalizzazione, rispettivamente, come si è visto, nel 1991 e nel 1996, il presupposto fondamentale della disciplina è venuto meno.
L'esigenza di convenire sulla difficoltà di procedere alla restituzione dei beni e di astenersi dal formulare pretese al riguardo si era, invero, profilata in relazione al regime della proprietà allora vigente in Jugoslavia.
La trasformazione dell'assetto proprietario in Slovenia e Croazia e l'abolizione del regime della proprietà sociale rappresentano, incontestabilmente, un mutamento fondamentale delle circostanze, che facevano parte della base essenziale del consenso che aveva portato alla disciplina pattizia.
Inoltre, il mutamento intervenuto ha radicalmente trasformato la portata dell'obbligo, precedentemente assunto dall'Italia, di non avanzare alcuna ulteriore rivendicazione in relazione ai beni sottoposti ai regimi della proprietà pubblica e sociale.
Sono, dunque, presenti entrambi gli elementi che, alla luce dell'art. 62 della Convenzione di Vienna sui diritto dei trattati, giustificano la risoluzione di un trattato.
Si tratta della clausola “rebus sic stantibus”, vista come causa di estinzione degli accordi internazionali.
Ritenere vigente tale clausola significa ritenere che un trattato si estingua, in tutto o in parte, per il mutamento delle circostanze di fatto esistenti al momento della stipulazione del trattato stesso, purché si tratti di circostanze essenziali, senza le quali i contraenti non si sarebbero indotti al trattato o a parte di esso.
Nella storia antica troviamo riferimenti alla rilevanza del mutamento delle circostanze.
Un'approfondita esplorazione della problematica si trova in Polibio, che descrisse una sentenza dell'assemblea spartana del 211 a.C., chiamata a decidere se mantenere in vigore un trattato di alleanza con gli Etoli o sostituirlo con una nuova alleanza con la Macedonia.
Polibio parlò di “radicale mutamento delle cose di Grecia”, che egli ritenne essersi verificato a seguito dell'intervento dei barbari Romani, a vantaggio dei quali avrebbe giocato il mantenimento dell'alleanza con gli Etoli (Polibio, Storie).
Il pensiero di storici e moralisti greci e latini venne ripreso nel “diritto delle genti” dal sedicesimo secolo: Grozio utilizzò tale tesi nel definire i rapporti tra gli Stati. Egli sostenne che non si può pensare che uno Stato avesse inteso obbligarsi a proprio svantaggio, quando si crea una situazione di “impossibilità morale”, provocata dal mutamento delle circostanze.
Il pensiero groziano venne ripreso da Pufendorf, Textor e poi da Vattel, che ritenne che se l'esistenza di un certo stato di fatto era stata determinante per l'assunzione di un obbligo, la permanenza di tale obbligo si legasse indissolubilmente alla permanenza dello stato di fatto.
Fino al diciannovesimo secolo, dall'inquadramento dell'istituto del mutamento delle circostanze derivano due importanti conseguenze:
l'effetto del mutamento può essere solo estintivo;
l'estinzione del trattato è del tutto automatica, a partire dal momento in cui il mutamento si è verificato.
Dal diciannovesimo secolo in poi, numerosi autori hanno sostenuto che tutti i trattati internazionali si intendono conclusi con la tacita clausola “rebus sic stantibus”. Tra essi, Fauchille sostenne che “les traités conclus sans fixation de dureé doivent etre toujours censés contenir une clause rebus sic stantibus, c'est à dire avoir etre signés sous la reserve tacite qu'ils cesseront d'etre en vigueur quand les circostances à raison desquelles il ont eté conclus auront cessé d'exister: la fin d'un traité doit inévitablement suivre la disparition des causes qui l'ont occasioné”.
Altri hanno giustificato la validità del principio con motivi di giustizia, equità, di necessità oppure legittima difesa.
La storia diplomatica del XIX e XX secolo presenta numerosi esempi di trattati denunciati da una delle parti contraenti adducendo il motivo di sopravvenuto mutamento delle circostanze di fatto in vista delle quali furono stipulati. Si ricordano, tra i più importanti: nel 1870, la denuncia da parte della Russia degli articoli del Trattato di Parigi del 1856 relativi alla smilitarizzazione del Mar Nero; nel 1908, l'annessione da parte dell'Austria-Ungheria delle Province della Bosnia e Erzegovina; nel 1919 la richiesta da parte dell'Italia della città di Fiume.
In contrapposizione alle tesi di cui sopra, nel periodo precedente alla Convenzione di Vienna, molti autori ritennero che solo la norma “pacta sunt servanda” avesse reale protezione giuridica e che non ci sarebbe prova dell'esistenza di una consuetudine che riconosca cittadinanza nell'ordinamento internazionale alla clausola “rebus sic stantibus”.
Essi autori consideravano il principio “pacta sunt servanda” indispensabile per la convivenza pacifica degli Stati negando alla clausola “rebus sic stantibus” la natura di vero e proprio istituto giuridico, configurandola come semplice motivo di revisione dei trattati.
Il primo a negare ogni valenza giuridica alla clausola fu Bruno Schmidt, che ravvisò in essa una “massima di esperienza” che fondata sulla “forza delle cose”, un limite al vigore delle norme giuridiche internazionali.
A tale teoria aderì l'italiano Salvioli, che considerò il principio espresso dalla clausola solo come fatto, un “quid” di “pregiuridico” e affermò che i trattati debbono giuridicamente valere e vincolare.
La Convenzione di Vienna del 1969 sul diritto dei Trattati, all'art. 62, comma 1, dispone che “un cambiamento fondamentale delle circostanze intervenuto rispetto alle circostanze esistenti al momento della conclusione di un trattato e che non era stato previsto dalle parti non può essere invocato come motivo di estinzione o recesso, a meno che: l'esistenza di tali circostanze non abbia costituito una base essenziale del consenso delle parti a vincolarsi al trattato; e che tale cambiamento non abbia per effetto di trasformare radicalmente la portata degli obblighi che rimangono da adempiere in base al trattato”.
Non si potrebbe opporre, per non procedere alla restituzione dei beni, l'avvenuto o previsto versamento di un indennizzo. Infatti, la maggior parte dei beni erano stati soggetti al regime di proprietà sociale; tale indennizzo era quindi commisurato non alla cessione della proprietà privata ma alla sua trasformazione in proprietà sociale; qualora una persona ottenesse oggi la restituzione del bene dopo aver conseguito anche l'indennizzo, non ne trarrebbe un arricchimento: non bisogna dimenticare l'enorme differenza tra ammontare dell'indennizzo e il valore di mercato del bene al quale si riferisce.
Tornando al tema della possibilità di applicazione del regime della Convenzione europea dei diritti dell'uomo (e dei principi elaborati dalla Corte dei diritti dell'uomo) in relazione alle “leggi di denazionalizzazione”, non pare che essa possa negarsi, soprattutto se si pone attenzione al fatto che le esclusioni previste dalle due leggi di denazionalizzazione rispetto al diritto, riconosciuto in via generale, alla restituzione dei beni nazionalizzati (“i precedenti proprietari non avranno diritto alla restituzione se la questione sia stata oggetto di trattati internazionali”: legge slovena del 1991 e legge croata del 1996, dopo le modifiche introdotte con legge del 5 luglio 2002), appaiono in aperto contrasto con l'art. 1 del Protocollo addizionale e l'art. 14 della Convenzione europea, costituendone una grave violazione.
Sotto un primo profilo, va sottolineato che il significato e l'effetto delle due leggi di denazionalizzazione è quello di cancellare, del tutto e per tutti, il regime di proprietà pubblica e sociale. Stabilire in queste condizioni il mantenimento del diritto di proprietà in capo agli enti pubblici – Stato e/o Comuni che in precedenza erano titolari della proprietà sociale – negando agli antichi titolari il diritto di riacquistare la loro proprietà significa, in realtà, operare un nuovo trasferimento coattivo del diritto di proprietà a favore del titolare della proprietà sociale. Sotto l'apparenza del mantenimento dello “status quo ante”, nella sostanza le leggi di denazionalizzazione sanciscono una seconda nazionalizzazione: vale a dire una privazione del diritto a riottenere i propri beni, attuandone il trasferimento coattivo a favore dell'ente pubblico.
Ciò si pone certamente in contrasto con gli obblighi assunti con l'adesione di Croazia e Slovenia al Protocollo n. 1 e precisamente con l'obbligo nascente dalla seconda norma derivante dall'art. 1 di tale Protocollo, quello di non privare un soggetto della proprietà dei suoi beni se non per causa di “utilità pubblica”, come previsto in via di eccezione dall'art. 1 del Primo Protocollo.
Si tratta di un atto di espropriazione mascherato, per il quale la questione dell'esistenza di una ragione di pubblica utilità non viene neppure adombrata.
E' inoltre il caso di ricordare che dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo si desume il principio – enunciato ad esempio nella ricordata sentenza Sporrong e Lonnroth – per cui il sistema della Convenzione è destinato a tutelare “diritti concreti ed effettivi”; pertanto deve considerarsi vietato come espropriazione non soltanto ogni provvedimento formalmente destinato al trasferimento coattivo di un bene, ma anche qualsiasi provvedimento tale da pregiudicare l'esercizio del diritto, costituendo una sorta di “espropriazione di fatto”.
Un altro profilo merita di essere approfondito.
Le normative slovena e croata stabiliscono che siano esclusi dal diritto alla restituzione tutti coloro che abbiano percepito o diritto di percepire un indennizzo da uno Stato straniero.
Tali normative sono chiaramente ispirate alla necessità di evitare una doppia percezione del compenso per lo stesso bene. In realtà, siamo di fronte a disposizioni discriminatorie in ragione della nazionalità dei soggetti.
Invero, è indubbio che la disposizione non può che riguardare cittadini stranieri, posto che è evidente che soltanto costoro possono essere beneficiari di indennizzi previsti da accordi internazionali.
Ma la discriminazione sussiste anche dal punto di vista per così dire “materiale”, posto che ai cittadini sloveni e croati viene riconosciuto un diritto alla restituzione dei beni in natura e quindi nel loro valore attuale, mentre agli stranieri tale diritto viene negato e sostituito da una modesta somma di denaro versata a titolo di indennizzo.
Non si tratta, pertanto, della negazione di un diritto del quale gli stranieri abbiano, seppure in forma diversa, già usufruito, ma dell'aperto rifiuto ad attribuire agli stranieri lo stesso trattamento che, in sede di ripristino del regime di proprietà privata, viene riservato ai cittadini croati e sloveni.
In relazione alla Slovenia, che appartiene alla Unione Europea, va, inoltre, ricordata la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione, firmata a Nizza il 7/12/2000, che, all’art. 17, riconosce il diritto di proprietà nel capitolo denominato “libertà” e recita: “ogni individuo ha il diritto di godere della proprietà dei beni che ha acquistato legalmente, di usarli, di disporne e di lasciarli in eredità. Nessuno può essere privato della proprietà se non per causa di pubblico interesse, nei casi e nei modi previsti dalla legge e contro il pagamento in tempo utile di una giusta indennità per la perdita della stessa. L’uso dei beni può essere regolato dalla legge nei limiti imposti nell’interesse generale”.
Come noto, la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea e, in particolare, il suddetto art. 17, dedicato al diritto di proprietà, va considerata alla stregua di importante affermazione di principi fondamentali e generali ricavati sia dalla CEDU e dai Trattati, sia dalle tradizioni costituzionali comuni degli Stati membri, sia dalla giurisprudenza della Corte di giustizia e della Corte europea dei diritti dell’uomo.
Avv. Antonio Salvatore

mercoledì 4 febbraio 2009

LA RESISTENZA ALL'ORDINE ILLEGITTIMO DELL'AUTORITA': DALLA LEGITTIMITA' AL DOVERE

(Relazione tenuta il 13 febbraio 2008 dall'Avv. Antonio Salvatore in occasione della "Giornata della Memoria" presso la Biblioteca Ariostea di Ferrara)

Il tema della legittimità della resistenza all’ordine illegittimo dell’autorità ha radici antiche e si propone, per la prima volta, con l’avvento del Cristianesimo, per il quale l’obbedienza a Dio viene prima di quella alle leggi dello Stato (“obedire oportet Deo, magis quam hominibus” – Act. 5, 29).
Nello stesso “Corpus Juris Canonici” è indicato come nullo e non vincolante il comando illegittimo del pubblico funzionario. E non soltanto è dichiarata la nullità del comando (e quindi legittimata la “resistenza passiva”), ma è, altresì, concessa la facoltà di “resistenza attiva”, vale a dire quella di opporre la forza alla forza (“vim vi repellere licet”).
Non è questa la sede per discutere se la suddetta dottrina canonistica legittimante la resistenza contro un atto ingiusto - “et etiam vi facta” - fosse ispirata dal precipuo scopo di salvaguardare i diritti ecclesiastici, piuttosto che dal più “nobile” ed “elevato” intento di garantire il rispetto della legge divina da eventuali interferenze dello Stato.
Nel Medioevo tale dottrina venne approfondita da San Tommaso d’Aquino, sia nella “Summa Theologica” (1266) che nel “De regimine principium” e da Marsilio da Padova, nel “Defensor Pacis” (1324).
In età moderna ne ha trattato Ugo Grozio, considerato il fondatore del diritto internazionale.
Autorevoli costituzionalisti fanno risalire il riconoscimento giuridico del diritto di resistenza alla “Bulla Aurea” di Andrea II di Ungheria (art. 31) del 1222 e alla “Magna Charta” inglese del 1215 (paragrafo 61).
La resistenza al comando illegittimo dell’autorità può rilevare sia come facoltà (nel senso che il soggetto cui l’ordine è rivolto è legittimato a resistervi, tanto in senso passivo, non eseguendo il comando, quanto in senso attivo, ricorrendo all’uso della forza) sia come vero e proprio obbligo giuridico (nel senso che il soggetto ha il dovere giuridico di disobbedire all’ordine): in quest’ultimo senso, l’art. 51, comma terzo, del codice penale italiano stabilisce che del reato commesso in esecuzione dell’ordine criminoso dell’autorità risponde anche “chi ha eseguito l’ordine (…)”.
E’ ben evidente come la resistenza vista come obbligo giuridico sia un “quid pluris” rispetto alla mera situazione di legittimità a non eseguire l’ordine: è soltanto attraverso l’imposizione dell’obbligo di non eseguire l’ordine illegittimo che, invero, è possibile realizzare compiutamente l’affermazione dei diritti di libertà e perseguire i crimini contro l’umanità.
A tale proposito, appare opportuno ricordare il giurista tedesco Rudolf von Jhering (n. 1818 – m. 1882) il quale nell’opera “Der Kampfs ums Recht” (“La lotta per il diritto”), pubblicata nel 1872, affermò che “la resistenza contro l’ingiustizia è dovere; dovere della persona verso sé stessa e verso la comunanza”.
Il problema di giudicare la violazione dell’obbligo di non obbedire all’ordine illegittimo dell’autorità (nonché quello di ricorrere ad istituzioni giurisdizionali sovranazionali per giudicare gravi crimini individuali) si pose, per la prima volta, nel 1474, allorché il “Landvogt” (“governatore”) Peter Von Hagenbach (n. 1423 – m. 1474), cavaliere comandante della IX Compagnia d’ordinanza delle truppe Duca Carlo I di Borgogna, fu processato e condannato a morte per omicidio, stupro e altri crimini contro le “leggi di Dio e dell’uomo” commessi durante l’occupazione della città di Breisach.
Bisogna ricordare che la Borgogna, nel quindicesimo secolo, era un grande Principato che il Duca Carlo I (soprannominato “il Temerario”) mirava a ingrandire, desideroso di ricostituire l’antico regno di Lotario, dalle Fiandre all’Italia.
Il Duca di Borgogna inviò Von Hagenbach a Breisach, città sull’Alto Reno, con l’ordine di ridurre alla sottomissione più totale gli abitanti di quella città, posta sotto occupazione bellica.
Von Hagenbach, in esecuzione degli ordini del Duca, instaurò nella città un regime fondato sul terrore, commettendo assassinii, stupri, confische, tassazioni illegali, che danneggiarono anche gli abitanti delle terre vicine e i mercanti svizzeri che transitavano nella zona per recarsi alla Fiera di Francoforte.
In seguito a una rivolta degli abitanti di Breisach, ai quali si unirono alcuni mercenari tedeschi, Von Hagenbach venne catturato sul territorio dell’Arciduca d’Austria.
Nel 1474 l’Arciduca ordinò che Von Hagenbach venisse processato e si istituì una Corte “ad hoc”, composta da ventotto giudici, provenienti da varie città della coalizione alleata (Strasburgo, Basilea, Colmar e Sélestat), con un Presidente nominato dall’Arciduca.
La Confederazione Svizzera designò alcuni giudici e si può affermare che (attesa la sua indipendenza, sebbene all’epoca non ancora formalmente riconosciuta) quella Corte fosse un vero e proprio tribunale internazionale.
Secondo l’accusa, Von Hagenbach, nell’eseguire gli ordini del Duca di Borgogna, aveva “calpestato le leggi di Dio e dell’uomo”.
Per la difesa, Von Hagenbach non aveva fatto che obbedire agli ordini del Duca di Borgogna cui non poteva sottrarsi, in qualità di “Landvogt”.
Per raccogliere prove, la difesa chiese un rinvio del processo, che non venne concesso, essendo giudicata, tale richiesta, “contraria alle leggi di Dio”.
Von Hagenbach venne privato del titolo di cavaliere, condannato alla pena capitale e giustiziato, poiché “in quanto cavaliere, l’imputato avrebbe dovuto impedire la commissione dei crimini per i quali, invece, era stato processato”.
Fu un caso isolato, in quanto, all’epoca si riteneva che, terminato un conflitto, fosse necessario, per stabilizzare la pace raggiunta, pervenire a una sorta di amnistia.
Invero, prima del Trattato di Versailles (28 giugno 1919), era pressoché inconcepibile anche solo ipotizzare un’incriminazione dei responsabili di crimini di guerra fondata sulla loro responsabilità individuale.
Il tema del dovere di resistenza all’ordine illegittimo dell’autorità si è riproposto alla fine del secondo conflitto mondiale, dopo la tragedia dello sterminio di milioni di esseri umani – soprattutto ebrei – all’interno dei lager nazisti.
Dopo molti mesi di collaborazione, le quattro potenze vincitrici (U.S.A., Gran Bretagna, Francia e Russia) sottoscrissero, l’8 agosto 1945, il Trattato di Londra, che, all’art. 1, istituì il Tribunale Militare Internazionale di Norimberga.
Nell’articolo 1 dello Statuto del Tribunale si stabilì il principio della responsabilità penale di coloro che hanno commesso “crimini di guerra” o “contro l’umanità”, anche se in esecuzione di ordini emanati da un’autorità superiore. In particolare, per quanto riguarda quest’ultimo aspetto, l’art. 8 stabilì che “il fatto che un imputato abbia agito in ossequio a ordini del proprio governo o di un proprio superiore non libererà l’imputato medesimo dalla responsabilità penale, ma potrà costituire attenuante all’atto della comminazione delle pene che il tribunale riterrà di infliggere all’imputato medesimo”.
Durante il processo di Norimberga, le difese degli imputati, pur non negando la commissione dei crimini da parte dei loro assistiti, ne contestavano la punibilità, dichiarando che avevano semplicemente obbedito agli ordini dei superiori, perfettamente legittimi in rapporto all’ordinamento giuridico del tempo e del luogo in cui i crimini furono eseguiti.
Gli imputati venivano, nell’impostazione difensiva, considerati meri funzionari statali, operanti in perfetta conformità con le norme giuridiche allora vigenti, dettate da organi dello Stato nazionalsocialista e, nel corso del processo di Norimberga, protestarono contro quella che percepivano come un’ingiustizia: essere giudicati dai vincitori in base a norme da questi ultimi create.
In realtà, non deve dimenticarsi che, durante il regime nazista, non era stato affatto abrogato l’articolo del codice penale militare tedesco in base al quale “all’ordine manifestamente criminale non si deve obbedire” e neppure il paragrafo che stabiliva che “il fatto che la persona abbia ritenuto di dovere obbedire alla sua coscienza o ai precetti della sua religione non esclude che un’azione o un’omissione possa essere punita”.
La Corte di Cassazione italiana (Cass., sez. I penale, sentenza 16 novembre 1998) si è, ormai dieci anni fa, occupata del tema in questione nel c.d. processo “Hass - Priebke” per l’atto di rappresaglia delle Fosse Ardeatine che seguì ai fatti di via Rasella.
Come noto, alle ore 15 del 23 marzo 1944, all’interno della città di Roma, in via Rasella, al passaggio di una compagnia di polizia tedesca del battaglione “Bozen”, avveniva lo scoppio di una carica di esplosivo, accompagnato dal lancio di bombe a mano: all’esito dell’attentato, opera di una squadra di partigiani italiani appartenente all’organizzazione clandestina di resistenza contro le forze militari occupanti, perdevano la vita trentadue soldati tedeschi.
Il tenente colonnello delle SS, Herbert Kappler, comandante della “Aussenkommando” della polizia e del servizio di sicurezza di via Tasso durante l’occupazione di Roma da parte delle truppe tedesche, giunto poco dopo sul posto, ebbe immediato incarico di occuparsi dell’attentato e, in particolare, venne incaricato di preparare un elenco di trecentoventi persone (dieci per ogni soldato tedesco che aveva perso la vita nell’attentato) da fucilare a titolo di rappresaglia.
Kappler, riuniti a rapporto gli ufficiali (tra cui il capitano Erich Priebke e il maggiore Herbert Hass, entrambi appartenenti alle SS), dispose che tutti gli uomini del suo comando partecipassero all’esecuzione, mediante esplosione di un solo colpo alla testa di ciascuna vittima, mentre il capitano Priebke fu incaricato di controllare il numero delle persone via via fucilate: inoltre, ciascuno degli ufficiali avrebbe dovuto eseguire personalmente almeno una fucilazione, a fini di esemplarità per la truppa.
Informato poco dopo del sopravvenuto decesso di un altro soldato tedesco, Kappler dispose di includere nell’elenco altri dieci ebrei arrestati quella mattina.
La fucilazione ebbe luogo a partire dal pomeriggio fino alla sera del 24 marzo, all’interno delle Cave Ardeatine: nell’antistante piazzale giungevano gi autocarri con le vittime. Le operazioni erano dirette dal capitano Schutz, il quale avvertì i militari della truppa che quanti non si sentivano di sparare non avevano altra via di uscita che mettersi accanto alle vittime designate, per condividerne il medesimo destino.
I nomi delle vittime venivano cancellati di volta in volta dall’elenco tenuto dal capitano Priebke, rimasto sul posto fino alle ore 19, quando l’eccidio ebbe termine; ciascuno degli ufficiali (quindi anche gli stessi Priebke ed Hass) eseguì personalmente almeno due uccisioni per dare l’esempio alla truppa; subito dopo alcune mine fatte brillare chiusero l’accesso alla cava.
I morti furono complessivamente trecentotrentacinque, quindici in più rispetto ai trecentoventi corrispondenti al fissato parametro di dieci a uno.
La Corte di Cassazione, con la suddetta sentenza, ha escluso l’applicazione, in favore degli imputati Priebke e Hass (che, come sopra riferito, avevano partecipato, anche attivamente, alla strage delle Fosse Ardeatine), della esimente di cui all’allora vigente (è stato abrogato dall’art. 22 della legge 11 luglio 1978 n. 382) art. 40 del codice penale militare di pace (giusta il quale “se un fatto costituente reato è commesso per ordine del superiore (…), del reato risponde sempre chi ha dato l’ordine”, ma ne risponde “anche il militare che ha eseguito l’ordine quando l’esecuzione di questo costituisce manifestamente reato”).
Per la Cassazione “anche l’insindacabilità e la vincolatività dell’ordine, proprie del sistema gerarchico militare, trovano un limite razionale nell’intrinseco, oggettivo ed evidente contenuto criminoso dell’ordine superiore, per ciò stesso percepibile sempre e comunque dal subordinato, il cui dovere di attenzione e vigilanza viene così richiamato ai fini del prescritto dovere di obbedienza; sicché se il comportamento ordinato risulta indiscutibilmente criminoso nell’opinione comune radicata nel tipo medio di persona non potrà giammai essere invocata, da parte dell’esecutore, l’inconsapevolezza o la non percepibilità della delittuosità del fatto come causa – di natura personale e soggettiva – di esclusione della responsabilità e della pena”.
Sembra, peraltro, di poter affermare che, a sostegno della tesi della non applicabilità, agli imputati, dell’esimente di cui all’art. 40 del codice penale militare di pace vi possa essere una ragione diversa e assorbente.
Va tenuto, invero, conto del fatto che sia Priebke che Hass erano appartenenti alla “polizia di sicurezza” (“Si.po.”), sotto la direzione di Himmler e, come tutti i componenti della “Si.po.”, erano inquadrati, fin dal 1939, nelle “SS”.
La “Si.po.” aveva compiti di polizia politica per l’individuazione dei gruppi degli avversari del “Reich” , nonché di persecuzione politica e razziale, nel quadro istituzionale delle “SS”, organo dello Stato-partito, componente privilegiata di esso, una specie di Super-Stato, essendone i membri responsabili solo di fronte al tribunale speciale del corpo.
Ai componenti della “Si.po.” erano affidati compiti che presupponevano l’emanazione di ordini necessariamente coinvolgenti l’esercizio criminoso della violenza, rispetto ai modelli legali di comportamento regolati dai codici e dalla legge penale del “Reich”: ordini la cui sistematica esecuzione aveva insanguinato, per l’intera durata del conflitto, le retrovie dell’Est europeo, secondo le prescrizioni dell’ordinanza “Nacht und Nebel” (notte e nebbia”), emanata da Hitler il 7 dicembre 1941, in base alla quale la polizia di sicurezza era tenuta a far sparire “nella notte e nella nebbia”, senza processo per non provocare disordini, chiunque fosse considerato attentatore alla sicurezza del “Reich”.
Questa ordinanza era stata preceduta dalle “direttive” del marzo dello stesso anno, con alcune delle quali – “segretissime” – si affidavano a Himmler “compiti speciali” da svolgere, “indipendentemente dall’esercito”, nelle aree occupate che dovevano rimanere chiuse a ogni interferenza esterna. Direttive che, tradotte in pratica nello sterminio di militari prigionieri e di appartenenti alla popolazione civile, trovavano la propria base nel discorso sulla “guerra ideologica” tenuto, nello stesso mese di marzo del 1941, da Hitler ai capi delle tre armi.
A tali direttive si opposero fermamente uomini come il generale Ludwig Beck – poi morto suicida – il quale affermava che “il dovere di obbedienza del militare termina là dove consapevolezza e coscienza e senso di responsabilità vietano l’esecuzione di un ordine”.
Pertanto, nell’ambito di organizzazioni come la “Si.po.”, nessun problema di eseguire o meno l’ordine criminoso si poneva – salvo remote ipotesi di una crisi di coscienza, peraltro, a quanto consta, mai registrate tra gli ufficiali – agli specialisti della persecuzione politica e razziale.
Né la dismisura della rappresaglia è cosa qualitativamente, cioè giuridicamente, diversa dalla tortura di un prigioniero. Sempre, l’operazione diretta alla soppressione di innocenti ed all’eliminazione di ogni residuo di sopravvivenza ebraica assumeva giuridicamente i contorni di un atto del sistema repressivo nazista, conforme alle ordinanze degli ufficiali superiori delle “SS”, ispirate ai dettami di Hitler, di fronte alle quali rimaneva lettera morta ogni contraria disposizione dello stesso ordinamento penale e processuale tedesco: col risultato di un unico amalgama tra l’ordine criminoso e la sua esecuzione nell’intima relazione di corresponsabilità intercorrente tra titolari di comandi, organi, uffici e individui che ne facevano parte (corresponsabilità, se mai, graduabile in termini quantitativi), a qualunque livello nelle gerarchie militari e politiche.
Inoperatività, dunque, del precetto di cui all’art. 40 del codice penale militare di pace, che presuppone l’obbligo di osservare con onore la legge militare di pace e di guerra e pertanto, nel caso di violazione di essa, ascrive la responsabilità al superiore, per estenderla all’inferiore (che esegue l’ordine) solo quando si manifesti il carattere criminoso dell’ordine, con diritto dell’inferiore di rifiutarne l’esecuzione e obbligo di riferirne senza indugio all’autorità sovraordinata: si tratta, evidentemente, di distinzioni che perdono il loro precipuo significato in relazione all’illecito compiuto, in concorso tra loro, da soggetti reciprocamente vincolati dal “pactum sceleris”.
La tesi appena esposta è stata portata alle estreme conseguenze (essendo stata “allargata” a migliaia di comuni cittadini tedeschi) da D.J. Goldhagen (“I volenterosi carnefici di Hitler”, Milano 1996) e di E. A. Johnson (“Il terrore nazista. La Gestapo, gli ebrei e i tedeschi, Milano, 2001), per i quali gli “ordini superiori” – così come le leggi naziste nel loro complesso – non furono disubbiditi perché non fecero altro che dare espressione a quella cultura antisemita fortemente sedimentata nell’animo di migliaia di cittadini comuni tedeschi, che scelsero di “imbracciare un fucile” per “concorrere alla soluzione del problema ebraico”.
La suddetta pronuncia della Corte di Cassazione imprime il sigillo definitivo del controllo di legittimità ad una delle vicende più tragiche della seconda guerra mondiale.
Ma da una delibera del Consiglio della magistratura militare (seduta del 23 marzo 1999), in esito a un’inchiesta svolta sui procedimenti per crimini di guerra, risulta che diverse centinaia di fascicoli concernenti decisioni a carico di militari tedeschi perfettamente identificati, sono stati trasmessi alle competenti procure militari soltanto negli anni 1994 – 1996.
“Con conseguenze ormai irreparabili” – sottolinea il Consiglio nella delibera – “da ascrivere solamente alla procura generale presso il Tribunale supremo militare, ufficio responsabile dell’abusivo trattenimento degli atti”.
Tale segnalazione comporterà, ovviamente, un ulteriore approfondimento nelle competenti sedi, anche per il coinvolgimento, a giudizio del Consiglio, “della responsabilità di altri organi e apparati dello Stato”.
Concludiamo segnalando che – come si apprende dalla lettura della più volte menzionata delibera – le notizie di reato registrate nel “ruolo generale dei procedimenti” per i suddetti crimini di guerra sono duemiladuecentosettantaquattro e, di esse, quella dell’eccidio delle Fosse Ardeatine è contrassegnata con il numero uno.
Avv. Antonio Salvatore