martedì 10 febbraio 2009

CURRICULUM VITAE AVV. ANTONIO SALVATORE

Avv. Antonio Salvatore
Piazza Sacrati n. 11 – 44121 FERRARA
I T A L I A
tel. e fax 0532 242582
E-mail: avvocato-salvatore@libero.it
www.avvocatosalvatore.blogspot.com
______________________

A. Dati personali:

Luogo e data di nascita : Ferrara, 23 novembre 1969

Lingua madre : Italiano

Altre Lingue (parlate e scritte) : Francese, Inglese, Spagnolo, Portoghese, Sloveno, Croato

Cittadinanza : Italiana

B. Studi:

1989 - 1993 Università di Ferrara, Laurea in giurisprudenza

C. Attività professionale:

1998 - oggi : Attività di Avvocato Libero Professionista Patrocinante in Cassazione


D. Opere Collettanee:

2012
Nel volume "Il danno ambientale" (ed. Giappichelli), ha pubblicato lo scritto dal titolo: "Il regime penalistico della gestione di rifiuti non autorizzata e della bonifica dei siti inquinati".

2004
Pareri motivati su quesiti proposti in materia di diritto penale – Ristampato e aggiornato nell’anno 2007 (ed. Cedam).


E. Articoli

2016
"Il dialogo tra le Corti alla luce della sentenza Taricco: riflessi in tema di responsabilità ex d.lgs. 231/2001", in  "La responsabilità amministrativa delle società e degli enti", n. 1 (gennaio - marzo 2016)

2015
"Il moderno diritto penale dell'ambiente e la responsabilità degli enti nella prospettiva dell'ermeneutica gadameriana", in  "La responsabilità amministrativa delle società e degli enti", n. 4  (ottobre - dicembre 2015)
"L'interferenza della dichiarazione di fallimento rispetto al procedimento ex d.lgs. 231/2001, con particolare riguardo alla legittimazione del curatore a impugnare il provvedimento di sequestro ex artt. 19 e 53 (commento a Cass. Pen., n. 11170, 17 marzo 2015)", in  "La responsabilità amministrativa delle società e degli enti", n. 2  (aprile - giugno 2015)
"Chi schiaffeggia chi", in Mondoperaio, fascicolo n. 4, aprile 2015
"Non di solo Jobs Act", in Mondoperaio, fascicolo n. 6, giugno 2015 

2014
"La Direttiva 2014/42/UE: il difficile equilibrio tra il contrasto della criminialità transfrontaliera e il rispetto delle garanzie e la tutela dei diritti della persona", in "La responsabilità amministrativa delle società e degli enti", n. 4 (ottobre - dicembre 2014)
"Il sequestro preventivo dei beni della persona giuridica: le sezioni unite compongono il contrasto", in "Studium Iuris", fascicolo n. 12, 2014, p. 1400
"La scienza inesatta", in Mondoperaio, fascicolo n. 12, dicembre 2014, p. 50
"Da Voltaire a Norimberga", in Mondoperaio, fascicolo n. 10, ottobre 2014, p. 48
"La protezione penale del patrimonio culturale e del paesaggio: dal codice penale Rocco al codice dei beni culturali e del paesaggio. Riflessi ex d. lgs. 231/2011", in "La responsabilità amministrativa delle società e degli enti", n. 1 (gennaio - marzo 2014)
"L'adeguatezza della compliance va valutata secondo un approccio sostanzialista", sul portale "on-line", sezione "Interventi", della Rivista "La responsabilità amministrativa delle società e degli enti", mese di novembre 2014
"Per le Sezioni Unite il curatore fallimentare non è legittimato a impugnare il provvedimento di sequestro ex art. 19 del d. lgs. n. 231/2001", sul portale "on-line", sezione "Interventi", della Rivista "La responsabilità amministrativa delle società e degli enti", mese di ottobre 2014
"La combustione illecita di rifiuti dopo la legge di conversione", sul portale "on-line", sezione "Interventi", della Rivista "La responsabilità amministrativa delle società e degli enti", mese di febbraio 2014
"Il nuovo reato di combustione illecita di rifiuti", sul portale "on-line", sezione "Interventi", della Rivista "La responsabilità amministrativa delle società e degli enti", mese di gennaio 2014

2013
"Ulteriori riflessioni su atti persecutori sui luoghi di lavoro e d. lgs. 231/2001", in "La responsabilità amministrativa delle società e degli enti", n. 3 (luglio - settembre 2013)
"Il fallimento della società non determina l'estinzione dell'illecito amministrativo da reato (commento a Cass. Pen., sez. V, 15 novembre 2012, n. 44824)", in "La responsabilità amministrativa delle società e degli enti", n. 2 (aprile - giugno 2013)

2012
"Atti persecutori sui luoghi di lavoro e legge 231. Profili di colpa di organizzazione e prospettive de iure condendo", in "La responsabilità amministrativa delle società e degli enti", n. 3 (luglio - settembre 2012)
Nota a Tribunale di Novara, 26 ottobre 2010, n. 423, in "La responsabilità amministrativa delle società e degli enti" n. 1 (gennaio - marzo 2012)

2011
Nota a Cassazione Penale, Sez. IV, 1 dicembre 2010, n. 42465, in "Ambiente & Sicurezza" - ed. Il Sole 24Ore, n. 7 del 19 aprile 2011

2010
"La natura pubblicistica non è condizione sufficiente per l'esonero 231 dell'ente (nota a Cass. pen., sez. II, 21 luglio 2010 n. 28699", in "Ambiente & Sicurezza" - ed. Il Sole 24Ore, n. 21 del 9 novembre 2010
"Risvolti letterari nella vita di Lombroso", in "Quaderni della Dante", n. XV (2009-2010)
Nota a Tribunale di Milano, Giudice per l'udienza preliminare, 17 novembre 2009, in "Ambiente & Sicurezza" - ed. Il Sole 24Ore, n. 10 del 25 maggio 2010
Nota a Tribunale di Trani, sezione distaccata di Molfetta, 26 ottobre 2009, in "Ambiente & Sicurezza" - ed. Il Sole 24Ore, n. 7 del 6 aprile 2010
"La delega di funzioni: significato e valenza del Modello Organizzativo alla luce del testo novellato dell'art. 16, comma 3, d. lgs. 81/2008", in "La responsabilità amministrativa delle società e degli enti" n. 1 (gennaio - marzo 2010), p. 43 e ss.

2009
"Il restyling della delega ai sensi del D. Lgs. 106/2009", in "Ambiente & Sicurezza" - ed. Il Sole 24Ore, n. 23 dell'8 dicembre 2009
"Il confine orientale. Aspetti storico-giuridici", in "Quaderni della Dante", n. XIV (2008-2009)
"L'interruzione della prescrizione nel sistema del d. lgs. n. 231/2001", in "La responsabilità amministrativa delle società e degli enti" n. 2 (aprile - giugno 2009), p. 129 e ss.
“L'”ingresso” della “prova scientifica” nel sistema del d. lgs. n. 231/2001”, in “La responsabilità amministrativa delle società e degli enti” n. 1 (gennaio – marzo 2009), p. 145 e ss.

2008
“La resistenza all’ordine illegittimo dell’autorità: dalla legittimità al dovere”, in “Quaderni della Dante”, n. XIII (2007-2008)
“Il sistema di sanzioni interne a garanzia dei modelli ex 231”, in “Ambiente & Sicurezza” – ed. Il Sole 24Ore, n. 15 del 29 luglio 2008
“Secondo l’Agenzia Europea, la valutazione economica è connessa alla prevenzione”, in “Ambiente & Sicurezza” – ed. Il Sole 24Ore, n. 3 del 5 febbraio 2008
“L’analisi economica del diritto alla base del codice etico”, in “Ambiente & Sicurezza” – ed. Il Sole 24Ore, n. 20 del 28 ottobre 2008
“Il Codice Etico: rapporti con il modello organizzativo nell’ottica della Responsabilità Sociale dell’Impresa”, in “La responsabilità amministrativa delle società e degli enti” n. 4 (ottobre – dicembre 2008), p. 67 e ss.

2007
“Dante e il diritto penale”, in “Quaderni della Dante”, n. XII (2006-2007)
Ha curato la ristampa dell’opera di C. De Antonellis, “De’ principi di diritto penale che si contengono nella Divina Commedia” (Città di Castello, 1894), aggiungendovi una prefazione

1999
“Omessa convocazione dell’assemblea e responsabilità penale”, in “Rivista Trimestrale di diritto penale dell’economia”, Anno XII, n.1-2 gennaio – giugno 1999

1997
“L’interruzione della prescrizione del reato, in generale, e del reato tributario, in particolare”, in “Rivista Trimestrale di diritto penale dell’economia”, Anno X, n.1-2 gennaio – giugno 1997
1996
“Luigi Borsari civilista”, nella rivista “Ferrara Storia”, ottobre-novembre 1996

1995
“La legge n. 489 del 1994: l’ennesima deroga al principio dell’irretroattività della disposizione penale tributaria più favorevole” , in “Rivista Trimestrale di diritto penale dell’economia”, Anno VIII, n.2-3 aprile-settembre 1995

F. Lezioni, Convegni e Seminari

2014
Nell'ambito del seminario organizzato dall'Ordine Avvocati di Rovigo dal titolo "Le misure cautelari personali e reali nella recente giurisprudenza", ha tenuto la relazione dal titolo "Il sequestro preventivo dei beni della persona giuridica alla luce della recente giurisprudenza delle Sezioni Unite".
Per la Scuola Forense di Rovigo ha tenuto la lezione dal titolo: "Il diritto penale dell'impresa al tempo della crisi".
Nel convegno organizzato dalla Sezione di Scienze Neurologiche Psichiatriche e Psicologiche del Dipartimento di Scienze Biomediche e Chirurgico Specialistiche dell'Università degli Studi di Ferrara, dal titolo "Percorrendo le vie della psicopatologia...Il viaggio di Marino Gatti", ha tenuto la relazione dal titolo: "Il demone della paura: l'ossessione immunitaria nella società del rischio e l'ipertrofia del diritto penale".
Per la Scuola Forense della Fondazione Forense Ferrarese ha tenuto la lezione dal titolo: "Le fonti del diritto dell'Unione Europea".
Nell'ambito dell'XIII Corso di primo livello per la formazione all'esercizio della funzione difensiva penale e del XI Corso di aggiornamento avvocati 2013 - 2014 della Camera Penale Ferrarese, ha tenuto la lezione dal titolo: "L'eterno conflitto tra determinismo e libero arbitrio: imputabilità e capacità di partecipare coscientemente al processo".

2013
Per la Scuola Forense di Rovigo ha tenuto la lezione dal titolo: "Gli atti persecutori: dal femminicidio al mobbing".
Nell'ambito del Secondo Corso della Scuola di Alta Formazione dell'Avv. Penalista, presso la Sede nazionale di Roma dell'Unione delle Camere Penali Italiane, in qualità di docente, ha tenuto la lezione dal titolo: "I reati ambientali e la responsabilità ex D. Lgs. n. 231/2001".
Per la Scuola Forense della Fondazione Forense Ferrarese ha tenuto la lezione dal titolo: "Le fonti del diritto dell'Unione Europea".
Per i Dirigenti Sindacali della Federazione Italiana Bancari e Assicurativi - F.I.B.A. C.I.S.L. - di Ferrara, ha tenuto la lezione dal titolo "Il mobbing: profili giurisprudenziali".
Nell'ambito dei "Tavoli di lavoro" organizzati dalla Rivista "La responsabilità amministrativa delle società e degli Enti", dal titolo "Novità normative, giurisprudenza recente e adeguamento dei modelli", ha tenuto la relazione dal titolo "Mobbing e d. lgs. n. 231/2001".

2012
Nell'ambito della presentazione del saggio "L'umanità vittima dei crimini ambientali: danno, percezione, rimedi" (Viator Editore), è intervenuto con la relazione dal titolo: "D. leg.vo 231/2001 e reati ambientali".
Nell'ambito del Primo Corso della Scuola Nazionale di Alta Formazione dell'Avvocato Penalista, presso la sede nazionale di Roma dell'Unione delle Camere Penali Italiane, in qualità di docente, ha tenuto la lezione dal titolo: "Reati ambientali".
Per il Comitato di Ferrara della Società Dante Alighieri, ha tenutopresso la Sala dell'Arengo la relazione dal titolo "Luigi Borsari giurista e patriota".
Ha presentato e coordinato il convegno dal titolo "Le indagini scientifiche in ambito forense", organizzato dalla Camera Penale Ferrarese e tenutosi presso l'Aula Magna del Dipartimento di Scienze Giuridiche dell'Università di Ferrara.
Per la Scuola Forense dell'Ordine degli Avvocati di Rovigo, ha tenuto una lezione-caso pratico in materia di imputabilità.
Nell'ambito del IV° Corso di Deontologia organizzato dalla Camera Penale Ferrarese ha tenuto la lezione dal titolo: "Le sanzioni disciplinari per la violazione delle norme deontologiche, con accenni alla riforma dell'ordinamento forense".
Per l'Università di Ferrara, Dipartimento di discipline medico-chirurgiche della comunicazione e del comportamento, Sezione di Clinica Neurologica, Scuola di Specializzazione in Neurologia, ha tenuto un seminario dal titolo: "Patologie neurologiche, comportamento criminale e responsabilità penale".
Per l'Università I.U.A.V. di Venezia, ha tenuto la lezione dal titolo: "La disciplina penalistica relativa alla bonifica dei siti inquinati e alla gestione di rifiuti non autorizzata".
Nell'ambito dell'XI Corso di primo livello per la formazione all'esercizio della funzione difensiva penale e del IX Corso di aggiornamento avvocati 2011 - 2012 della Camera Penale Ferrarese, ha tenuto la lezione dal titolo: "Il regime penalistico della gestione di rifiuti non autorizzata e della bonifica dei siti inquinati".
Nell'ambito del III° Corso di Deontologia organizzato dalla Camera Penale Ferrarese ha tenuto la lezione dal titolo: "Deontologia dell'avvocato penalista - Le indagini difensive".
Svolge la funzione, presso la Corte di Appello di Bologna, di Presidente della IV Sottocommissione Esami Avvocato per la sessione 2011. 


2011
Nel  convegno (organizzato dalla Sezione di Clinica Neurologica Dipartimento di Discipline Medico Chirurgiche della Comunicazione e del Comportamento dell'Università di Ferrara, Scuole di specializzazione in Neurologia e Neurochirurgia) dal titolo "L'aggressività nel paziente affetto da demenza, aspetti clinici, neurologici e forensi", ha tenuto la relazione dal titolo: "La capacità di stare in giudizio nel paziente affetto da demenza".
Nell'ambito del X Corso di primo livello per la formazione all'esercizio della funzione difensiva penale e dell'VIII Corso di aggiornamento avvocati 2010 - 2011 della Camera Penale Ferrarese, ha tenuto la lezione dal titolo: "Disciplina delle sanzioni previste per la violazione delle norme deontologiche".
Nell'ambito del Corso dell'Istituto di Applicazione Forense ha svolto le seguenti lezioni: "La responsabilità penale delle persone giuridiche: aspetti processuali e sostanziali"; "La prova scientifica"; "I reati tributari".
Nell'ambito del II° Corso di Deontologia organizzato dalla Camera Penale Ferrarese ha tenuto la lezione dal titolo: "Le sanzioni disciplinari per la violazione delle norme deontologiche, con accenni alla riforma dell'ordinamento forense".
Nell'ambito del X Corso di primo livello per la formazione all'esercizio della funzione difensiva penale e dell'VIII Corso di aggiornamento avvocati 2010 - 2011 della Camera Penale Ferrarese, ha tenuto la lezione dal titolo: "La sospensione del procedimento per incapacità di stare in giudizio dell'indagato e dell'imputato".

2010
Nel convegno (organizzato dalla Sezione di Clinica Neurologica Dipartimento di Discipline Medico Chirurgiche della Comunicazione e del Comportamento dell'Università di Ferrara) dal titolo "Sherlock Holmes: tra semeiotica medica e tecniche investigative", ha tenuto la relazione dal titolo: "La prova scientifica nel processo penale, con particolare riferimento all'epistemologia dell'investigazione".
Nell'ambito del X Corso di primo livello per la formazione all'esercizio della funzione difensiva penale e dell'VIII Corso di aggiornamento avvocati 2010 - 2011 della Camera Penale Ferrarese ha tenuto, unitamente alla Dott.ssa Cinzia Romagnoli, la lezione dal titolo: "Profili deontologici dell'avvocato penalista e strategie comunicative".
Nel convegno (organizzato dal Comune di Ferrara e dal Comitato di Ferrara della Società Dante Alighieri) sul 150° dell'Unità d'Italia, ha tenuto la relazione dal titolo: "Romagnosi e Cattaneo: due giuristi-filosofi del Risorgimento".
Nell'ambito del X Corso di primo livello per la formazione all'esercizio della funzione difensiva penale e dell'VIII Corso di aggiornamento avvocati 2010 - 2011 della Camera Penale Ferrarese ha tenuto la lezione dal titolo: "Sicurezza dei lavori nei cantieri, responsabilità penale e responsabilità dell'ente ex d. lvo. 231/2001".
Per l'Istituto di Applicazione Forense presso la Facoltà di Giurisprudenza dell'Università degli Studi di Ferrara ha tenuto la relazione dal titolo: "Tecniche argomentative e oratorie".
Nell'incontro, organizzato dal Comune di Ferrara, Università di Ferrara e Società Dante Alighieri, dedicato alla presentazione dell'edizione italiana del volume di Douglas Firth "Il caso di Augusto D'Este", è intervenuto con la relazione "L'esperienza della malattia nella letteratura".
Per l'Istituto di Applicazione Forense presso la Facoltà di Giurisprudenza dell'Università degli Studi di Ferrara ha tenuto la relazione dal titolo: "Soggetto attivo del reato e delega di funzioni".
Nel convegno (organizzato dalla Facoltà di medicina dell'Università di Ferrara e dalla Società Dante Alighieri) dal titolo: “Genio e follia”, ha tenuto la relazione: “Risvolti letterari nella vita di Lombroso”.
Nell'ambito del I° Corso di Deontologia organizzato dalla Camera Penale Ferrarese, ha tenuto la lezione dal titolo: "Le sanzioni disciplinari per la violazione delle norme deontologiche".
Nell'ambito del IX Corso di primo livello per la formazione all'esercizio della funzione difensiva penale e del VII Corso di aggiornamento avvocati 2009 - 2010 della Camera Penale Ferrarese ha tenuto la relazione dal titolo: "I soggetti attivi del reato, con particolare riferimento alla delega di funzioni".

2009
Per l'Istituto di Applicazione Forense presso la Facoltà di Giurisprudenza dell'Università degli Studi di Ferrara ha tenuto la relazione dal titolo: "La responsabilità da reato delle persone giuridiche".
Nel convegno tenutosi a Bolzano, organizzato dalla locale Camera Penale in collaborazione con la Camera penale ferrarese dal titolo: "Nuove frontiere nella responsabilità medica. Dalla responsabilità penale alla responsabilità civile, verso la responsabilità oggettiva. Dalla responsabilità del medico alla responsabilità della struttura", ha tenuto presso l'Auditorium della I.T.I. "G. Galilei" di Bolzano, la relazione dal titolo: "La responsabilità amministrativa degli Enti operanti nel settore sanitario".
Nell'ambito della "tavola rotonda" organizzata dalla Camera civile di Ferrara, Camera penale di Ferrara, Università di Ferrara e Fondazione Forense Ferrarese in tema di responsabilità medica, ha tenuto presso l'Aula Magna della Facoltà di Giurisprudenza dell'Università di Ferrara la relazione dal titolo: "La responsabilità amministrativa degli Enti operanti nel settore sanitario: rapporti tra norme tecniche e modelli di organizzazione ex d. lgs. n. 231/2001".
Nell'ambito del VIII Corso di primo livello per la formazione all'esercizio della funzione difensiva penale e del VI Corso di aggiornamento avvocati 2008 - 2009 della Camera Penale Ferrarese ha tenuto la relazione dal titolo: "I reati tributari".
Nel convegno (organizzato dall’Istituto di Storia Contemporanea di Ferrara e dalla Società Dante Alighieri, Comitato di Ferrara in occasione del “Giorno del ricordo”) dal titolo: “Il lungo esodo”, ha tenuto la relazione: “Il confine orientale: aspetti storico-giuridici”.
Per la Scuola Forense (Ordine Avvocati e Università Studi di Ferrara) ha tenuto la relazione dal titolo: “La responsabilità degli enti derivante da reato: aspetti sostanziali e processuali”.

2008
Quale membro del Comitato scientifico del Gruppo di lavoro sul decreto legislativo n. 231/2001 presso “Interprofessional Network” S.P.A. di Verona, ha tenuto la relazione dal titolo: “Le sanzioni interne ed esterne”.
Quale membro del Comitato scientifico del Gruppo di lavoro sul decreto legislativo n. 231/2001 presso “Interprofessional Network” S.P.A. di Verona, ha tenuto la relazione dal titolo: “Il codice etico”.
Quale membro del Comitato scientifico sul Gruppo di lavoro sul decreto legislativo n. 231/2001 presso “Interprofessional Network” S.P.A. di Verona, ha tenuto la relazione dal titolo: “L’organismo di vigilanza”.
Nell’ambito del VIII Corso di primo livello per la formazione all’esercizio della funzione difensiva penale e del V Corso di aggiornamento avvocati 2008 – 2009 della Camera Penale Ferrararese ha tenuto la lezione dal titolo: “La prova scientifica nel processo penale”.
Per la Scuola Forense (Ordine Avvocati e Università Studi di Ferrara) ha tenuto la relazione dal titolo: “La prova scientifica nel processo penale”
Per la Scuola Forense (Ordine Avvocati e Università Studi di Ferrara) ha tenuto la relazione dal titolo: “La responsabilità degli enti derivante da reato: aspetti sostanziali e processuali”
Nel convegno (organizzato dalla Prefettura di Ferrara, dall’Istituto di Storia Contemporanea di Ferrara e dalla Società Dante Alighieri, Comitato di Ferrara) dal titolo: “A settant’anni dalle leggi razziali. Il diritto negato”, ha tenuto la relazione: “La resistenza all’ordine illegittimo dell’autorità: dalla legittimità al dovere”.
Ospite dell’”intermeeting” organizzato dalla IV Circoscrizione del Lions Club di Ferrara, ha tenuto la relazione dal titolo “Libertà e Giustizia”.
Nell’ambito del VII Corso di primo livello per la formazione all’esercizio delle funzione difensiva penale e del V Corso di aggiornamento avvocati 2007 – 2008 della Camera Penale Ferrarese ha tenuto la lezione dal titolo: “La responsabilità degli enti derivante da reato: aspetti sostanziali e processuali”.
Associazione Piccole e Medie Industrie della Provincia di Ferrara ha tenuto la relazione dal titolo: “La responsabilità degli enti derivante da reato e la predisposizione dei modelli organizzativi”.
Nel convegno tenuto presso l’Università di Ferrara, dal titolo: “D. lgs. 231/2001 – La responsabilità “penale” delle persone giuridiche. Modelli organizzativi: aspetti e problematiche”, organizzato da “Il Sole 24 Ore”, Camera Penale di Ferrara, Camera Penale di Rovigo, in collaborazione con “Interprofessional Network”, ha tenuto la relazione dal titolo: “Le sanzioni esterne ed interne”.
Nel convegno tenuto presso l’Auditorium della Provincia di Venezia, dal titolo: “D. lgs. 231/2001 – La responsabilità “penale” delle persone giuridiche. Modelli organizzativi: aspetti e problematiche”, organizzato da “Il Sole 24 Ore”, Camera Penale Veneziana, in collaborazione con “Interprofessional Network”, ha tenuto la relazione dal titolo: “Le sanzioni, con particolare riferimento all’art. 25 septies”.
Nel convegno tenuto presso il Palazzo Gualdo, sede dell’Ordine degli Avvocati di Vicenza, dal titolo: “D. lgs. 231/2001 – La responsabilità “penale” delle persone giuridiche. Modelli organizzativi: aspetti e problematiche”, organizzato da “Il Sole 24 Ore”, Camera Penale Ferrarese, Camera Penale di Rovigo e Camera Penale di Vicenza, in collaborazione con “Interprofessional Network”, ha tenuto la relazione dal titolo: “Le sanzioni esterne ed interne”.

2007
Per la Società “Dante Alighieri”, Comitato di Ferrara ha tenuto la relazione dal titolo: “Dante e il diritto penale”, presso Sala Arengo del Palazzo Comunale, in occasione delle celebrazioni del 50° anniversario del Trattato di Roma


G. Partecipa alle seguenti Organizzazioni:

Fa parte del Corpo Docente per il Corso della Scuola Nazionale di Alta Formazione dell'Avvocato Specialista della Unione delle Camere Penali Italiane
Ordine degli Avvocati di Ferrara (iscritto)
Albo Speciale Patrocinanti in Cassazione e davanti alle altre Giurisdizioni Superiori
Coordinatore scientifico del Gruppo di lavoro, sul decreto legislativo n. 231/2001, di “Interprofessional Network” S.P.A. di Verona
Collaboratore della Rivista Mondoperaio

lunedì 9 febbraio 2009

IL CONFINE ORIENTALE: ASPETTI STORICO GIURIDICI

Relazione tenuta dall'Avv. Antonio Salvatore nel convegno “Il lungo esodo” il 10 febbraio 2009 presso la Biblioteca Ariostea di Ferrara

Si ritiene di far precedere la trattazione dell'oggetto principale della presente relazione – vale a dire la vexata quaestio dei cc.dd. “beni abbandonati” - da una veloce disamina degli strumenti di diritto internazionale che stanno, per così dire, sullo sfondo della delicata questione e dalla conoscenza dei quali è impossibile prescindere per il corretto inquadramento della stessa.
Il 10 febbraio 1947, a Parigi, venne, come noto, firmato il Trattato di Pace tra l'Italia e le Potenze alleate e associate (tra cui la Jugoslavia).
Trattato assai contestato a livello non solo politico ma anche dottrinale, in quanto imposto all'Italia senza alcuna possibilità di negoziazione (sarà definito, perciò, “Diktat”), segnando in maniera drammatica le sorti del “confine orientale” italiano.
Il Trattato di Pace comportò la cessione, alla Jugoslavia, di una parte consistente dei territori acquisiti dall'Italia dopo la Prima Guerra Mondiale: ben 7.700 chilometri quadrati, comprensivi delle città di Pola, Zara, Fiume e di gran parte dell'Istria. Per effetto del Trattato venne, inoltre, costituito tra l'Italia e la Jugoslavia uno “Stato cuscinetto”, definito “Territorio Libero di Trieste” (acronimo “TFL”), risultante dalle due zone di occupazione affidate, rispettivamente, all'amministrazione militare di Gran Bretagna e Stati Uniti (“zona A”) e a quella jugoslava (“zona B”).
In seguito a difficoltà insorte, segnatamente quella legata alla mancata nomina del Governatore, la situazione delineata dal Trattato di Pace venne modificata dal “Memorandum di Londra” del 5 ottobre 1954, assegnandosi la “zona A” all'amministrazione civile italiana e la “zona B” all'amministrazione civile jugoslava.
Il “Memorandum di Londra” – oltre ad aver apposto il crisma della definitività ad un confine tratteggiato a esclusivi scopi militari (esso corrisponde, invero, a larghi tratti, alla c.d. “linea Morgan”), senza tener in nessun conto le caratteristiche storiche ed etniche delle popolazioni interessate - è stato concluso senza autorizzazione né ratifica del Parlamento italiano, dunque in aperto contrasto con l'art. 80 della nostra Costituzione.
Esso è, pertanto, un atto illegittimo in quanto stipulato in violazione di una precisa disposizione costituzionale (si ripete, l'art. 80); più precisamente si tratta di un accordo affetto da “vizio del procedimento di formazione dell'atto”.
Per quanto riguarda gli effetti di tale illegittimità, la dottrina internazionalistica tradizionalmente distingue tra quelli che il trattato produce nell'ordinamento internazionale da quelli che produce nell'ordinamento interno del singolo Stato.
Per i primi, occorre riportarsi all'art. 46 della Convenzione di Vienna del 1969 sul diritto dei Trattati. Tale convenzione ha accolto una soluzione intermedia tra due delle tesi che, storicamente, si cono contrapposte: quella denominata “dualista”, ispirata al principio della netta separazione tra ordinamento internazionale e ordinamenti interni e quella “monista”, basata sull'assunto della c.d. “unitarietà degli ordinamenti giuridici”. Per tale ultima concezione, le norme interne sulla competenza a stipulare avrebbero pieno valore anche nell'ordinamento internazionale e, quindi, la violazione di esse concreterebbe un vizio di illegittimità del consenso anche a livello internazionale.
L'articolo 46 della Convenzione di Vienna in linea di principio nega che la violazione di norme interne sulla competenza a stipulare possa essere invocata come vizio del consenso, “a meno che tale violazione non sia stata manifesta e non concerna una norma di importanza fondamentale del proprio diritto interno”. Lo stesso articolo chiarisce il concetto di “violazione manifesta”, affermando che, perché questa ricorra, occorre il requisito dell'”evidenza obiettiva” per qualsiasi Stato che si comporti, in materia, “in base alla normale prassi ed in buona fede”.
Si può affermare che, essendo l'art. 80 della Costituzione italiana una disposizione di importanza fondamentale, la violazione di esso ben può costituire un vizio del trattato come atto internazionale.
Con la legge del 14 marzo 1977 n. 73 è stato ratificato il Trattato di Osimo del 10 novembre 1975, stipulato tra Italia e Jugoslavia e finalizzato a stabilire la cooperazione pacifica e i rapporti di buon vicinato, dando così l'avvio a una nuova fase nei rapporti tra i due Paesi.
Con tale Trattato – che confermò le intese provvisorie contenute del “Memorandum” del 1954 – venne fissata definitivamente la frontiera tra i due Stati. L'Italia, con la stipula di esso, rinunciò definitivamente e senza alcuna contropartita agli ultimi lembi della penisola istriana (la cosiddetta “zona B”).
Va, infine, menzionato l'accordo di indennizzo (denominato “Trattato di Roma”) concluso il 18 febbraio 1983 tra Italia e Jugoslavia, relativo alla ex “zona B” del Territorio Libero di Trieste, che si riferisce “ai beni, diritti ed interessi” indicati nell'art. 4 del Trattato di Osimo, “oggetto di misure di nazionalizzazione o di esproprio o di altri provvedimenti restrittivi da parte delle Autorità militari, civili o locali jugoslave”.
Secondo l'accordo del 1983, tali ”beni, diritti ed interessi...sono considerati come definitivamente acquisiti dalla Repubblica socialista federativa di Jugoslavia” (art. 1), la quale si obbliga a versare “al Governo italiano, a titolo di indennizzo, la somma di 110 milioni di dollari U.S.A.” (art. 2).
Una recente indagine ha mostrato come l'indennizzo previsto dall'accordo di Roma sia tutt'altro che “equo e accettabile”, ammontando solo a pochi centesimi di dollaro per metro quadro. Nell'indagine si sono assunte tre ipotesi di lavoro: a) che i beni italiani della “zona B” fossero pari all'estensione territoriale di questa; b) che fossero pari alla metà di questa; c) che fossero pari ad un terzo di questa. Nei tre casi, si giungerebbe ai seguenti valori: a) dollari 0,208; b) dollari 0,416; c) dollari 0,312. Non sono stati considerati gli immobili, visto che il valore è stabilito “in pianta”, ossia per metro quadro di terreno. L'inadeguatezza dell'indennizzo risulta, del resto, dallo stanziamento previsto dalla proposta di legge italiana del 1996, che prevedeva la distribuzione tra gli esuli della somma di 5 mila miliardi di lire. Orbene, 110 milioni di dollari corrispondono, al cambio attuale, a meno di 110 milioni di euro, mentre 5 mila miliardi di lire corrispondono a ben 2,58 miliardi di euro.
In ogni modo, l'art. 3 del Trattato di Roma dispone che: “il pagamento verrà effettuato a partire dal primo gennaio 1990 in 13 annualità eguali con un accreditamento su un conto intestato al Ministero del Tesoro presso la Banca d'Italia in Roma”.
Ad oggi, soltanto due rate (1990 – 1991) sono state pagate dall'ex Jugoslavia, prima della sua disintegrazione (2/13 di 110 milioni di dollari, vale a dire circa 17 milioni di dollari).
Il Governo sloveno ha poi versato, in varie rate, il 60% della somma residua, depositando l'importo di 56 milioni di dollari presso una banca lussemburghese.
Il pagamento non risulta accettato dal Governo italiano.
La Croazia avrebbe dovuto versare l'altro 40%, ma non ha pagato alcunché.
La distribuzione percentuale tra Croazia e Slovenia pare sia stata definita da un accordo tra i due Stati, ma tale accordo non produce di per sé effetti nei confronti dell'Italia, che non risulta averne accettato il contenuto.
Gli obblighi assunti dalla Jugoslavia con gli artt. 2 e 3 dell'Accordo del 1983 non sono stati adempiuti; il carattere solidale dell'obbligazione esclude che uno dei due Stati successori possa effettuare un pagamento parziale. Pertanto, l'adempimento non è perfetto e si prospetta la possibilità per il Governo italiano di richiedere la risoluzione dell'accordo del 1983 per inadempimento della controparte.
A tale proposito va ricordato che l'art. 60, paragrafo 1, della sopra richiamata Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati del 1969 stabilisce che “una violazione sostanziale di un trattato bilaterale ad opera di una delle parti legittima l'altra a invocare la violazione come motivo di estinzione del trattato o di sospensione totale o parziale della sua applicazione”.
La violazione degli obblighi posti dagli artt. 2 e 3 dell'Accordo del 1983 ha indubbiamente carattere sostanziale poiché i versamenti sono stati interrotti dopo due anni.
La risoluzione del trattato dovrebbe aver effetto nei confronti sia della Slovenia che della Croazia, dato il carattere solidale degli obblighi che loro incombono quali successori della Jugoslavia.
Va aggiunto che Slovenia e Croazia sono divenute parti della Convenzione europea dei diritti dell'uomo e del relativo Protocollo addizionale n. 1 con atti di adesione depositati, rispettivamente, il 28 giugno 1994 e il 5 novembre 1997. A seguito di tale adesione, i due Stati si sono obbligati a garantire “ad ogni persona soggetta alla loro giurisdizione i diritti e le libertà definiti al titolo I della Convenzione, oltre che quelli garantiti dai Protocolli”.
L'art. 1 del Protocollo dispone: “ogni persona fisica o giuridica ha diritto al rispetto dei suoi beni. Nessuno può essere privato dei suoi beni salvo che per causa di utilità pubblica e nelle condizioni previste dalla legge e dai principi generali del diritto internazionale.”
Le eccezioni sono previste dal successivo capoverso:
“Le disposizioni che precedono non recano pregiudizio al diritto degli Stati di mettere in vigore le leggi da essi considerate necessarie per regolare l'uso dei beni in modo conforme all'interesse generale o per assicurare il pagamento delle imposte o di altre contribuzioni o delle ammende”.
Secondo l'art. 14 della Convenzione europea il godimento dei diritti e delle libertà fondamentali deve essere assicurato senza discriminazione di alcuna specie come di sesso, razza, colore, lingua, religione, opinione politica – o di altro genere – origine nazionale o sociale, appartenenza ad una minoranza nazionale, ricchezza, nascita o altra condizione.
Tale articolo esprime il principio di “non discriminazione”.
Secondo l'interpretazione accolta dalla Corte europea dei diritti dell'uomo (a partire dal caso “Sporrong e Lonnroth c. Svezia”), l'art. 1 del Protocollo n. 1 contiene tre norme distinte: “la prima, contenuta nella prima frase del primo paragrafo, ha tenore generale e sancisce il principio del rispetto della proprietà, la seconda, enunciata nella seconda frase del medesimo paragrafo, prevede la privazione della proprietà e la sottopone a talune condizioni, la terza, espressa nel secondo paragrafo, riconosce agli Stati contraenti il potere, fra l'altro, di disciplinare l'uso dei beni conformemente all'interesse generale. Non si tratta di disposizioni prive di rapporti tra loro; la seconda e la terza si riferiscono a esempi particolari di limitazioni del diritto di proprietà e pertanto devono essere interpretate alla luce del principio sancito dalla prima”.
Quanto all'art. 14 della Convenzione, l'interpretazione corrente che ne dà la Corte è nel senso che tale disposizione costituisce un completamento delle norme sostanziali contenute nella Convenzione e nei Protocolli.
L'art. 14 non ha quindi, secondo la Corte, un'esistenza autonoma, in quanto produce effetti soltanto in relazione al godimento dei diritti e delle libertà garantiti da quelle norme.
In tale prospettiva, è stato osservato, non potrebbero essere sottoposti ad alcuna valutazione di legittimità tutti gli atti e i provvedimenti con i quali era stata a suo tempo introdotto il regime di proprietà sociale: mancherebbe, infatti, qualsiasi competenza della Corte “ratione temporis”.
Si tratta allora di verificare la possibilità di applicazione del regime convenzionale (e dei principi elaborati dalla Corte) in relazione alla normativa emanata dai due Stati (Croazia e Slovenia) dopo la fine del regime comunista, con le cc.dd. “leggi di denazionalizzazione”, provvedimenti normativi emanati dalla Croazia e dalla Slovenia, quali Stati successori della ex-Jugoslavia con i quali, per un verso, è stata abolita la c.d. “proprietà sociale”, di cui si tratterà in appresso e, per altro verso, si è disciplinato il ritorno al regime di proprietà privata (attraverso la restituzione dei beni e/o l'indennizzo ai precedenti proprietari) dei patrimoni nazionalizzati sotto il passato regime comunista e passati in mano pubblica.
Per quanto riguarda la Croazia, il testo iniziale della legge del 17 ottobre del 1996, non concedeva ai precedenti proprietari il diritto di richiedere né la restituzione né l'indennizzo, laddove alla data di entrata in vigore della legge essi non fossero in possesso della cittadinanza croata (art. 9, comma 1, “I diritti previsti da questa legge competono alle persone fisiche – precedente proprietario, ossia ai suoi eredi legittimi fino al primo grado – che nel giorno dell'entrata in vigore della presente Legge abbiano la cittadinanza croata”; la legge slovena, similmente, dispone: “Le persone fisiche avranno diritto se, al momento della nazionalizzazione del loro patrimonio, erano cittadini jugoslavi”).
La legge croata prevedeva ulteriormente (art. 10) che il diritto alla restituzione/indennizzo non esisteva laddove un trattato internazionale avesse già regolamentato la materia.
Veniva, inoltre, prescritto che le persone (fisiche e giuridiche) non aventi cittadinanza croata non fossero eleggibili, tranne nel caso in cui un trattato internazionale avesse diversamente disposto (art. 11).
La Corte Costituzionale croata venne investita della questione di costituzionalità delle previsioni della legge suddetta e in data 21 aprile1999 dichiarò incostituzionali le limitazioni riguardanti le persone fisiche (non quelle giuridiche!) straniere. Statuì la Corte che “discriminare i precedenti proprietari sulla base del possesso di un determinato “status” (come quello di cittadinanza) è ingiusto e non può essere giustificato dalla necessità di proteggere altri diritti costituzionalmente tutelati. Il diritto degli stranieri di ricevere in restituzione gli immobili dovrà essere regolato in armonia con le disposizioni di legge riguardanti il diritto degli stranieri di acquistare immobili in territorio croato”.
La Corte cassò, pertanto, l'art. 9.
Il Parlamento croato (“Sabor”), con legge 5 luglio 2002, recante “modifiche e aggiunte alla legge sull'indennizzo del patrimonio tolto durante il periodo del regime comunista jugoslavo” ha emendato la precedente legislazione del 1996, in conformità al dettato della Corte Costituzionale.
Sono state cancellate le parole contenute nell'art. 9, comma 1, relative alla “cittadinanza croata”, tuttavia la nuova legge, all'art. 2, dispone che “il proprietario precedente non ha diritto all'indennizzo del patrimonio sottratto qualora la questione dell'indennizzo è stata risolata con accordi internazionali”.
La legge croata di denazionalizzazione allude alla cittadinanza straniera anche nelle norme successive (artt. 10 e 11), che riguardano pure ipotesi coperte da accordi internazionali: (art. 10: “il precedente proprietario non ha diritto alla restituzione della proprietà tolta qualora la questione della restituzione costituisca oggetto di accordi internazionali, salvo che non sia diversamente disposto dalla legge”; art. 11, comma 1: “alle persone fisiche e giuridiche straniere non competono i diritti di questa legge”; art. 11, comma 2: “eccezionalmente, in deroga al precedente comma 1, i diritti previsti da questa legge possono essere assegnati alle persone fisiche e giuridiche quando ciò è previsto da accordi internazionali”.
Fino ad ora, l'interpretazione di tale legge è stata nel senso che, laddove lo Stato della cui cittadinanza è in possesso lo straniero non avesse concluso un trattato internazionale con la Repubblica della Croazia, ai suoi cittadini non poteva essere riconosciuto il suddetto diritto (un caso recente è stato discusso nell'aprile del 2005).
La suddetta interpretazione della normativa è stata sovvertita dalla recente decisione del 14 febbraio 2008 del Tar della Croazia, per il quale il requisito della stipulazione di un trattato internazionale non è più considerato come un elemento dirimente, nonostante il tenore letterale della norma.
Il Tar ha riconosciuto a Zlata Ebenspanger, ebrea di origini croate in seguito divenuta cittadina brasiliana (o meglio al proprio figlio, che le successe nel corso del processo dopo la sua morte), il diritto a ricevere in restituzione ovvero a ricevere un indennizzo per un'unità immobiliare sita nel centro di Zagabria e passato in mano pubblica subito dopo il secondo conflitto mondiale.
Il Tar non si è, invero, riferito alla formulazione letterale, ma ha tenuto conto del fatto che la Corte costituzionale dichiarò incostituzionale l'art. 9 nella parte in cui richiedeva il requisito della cittadinanza croata e ha concluso che il diritto a essere risarcito appartiene a tutte le persone fisiche straniere, rispetto alle quali il tema dei beni “rapinati” non ha formato oggetto di alcun trattato internazionale.
Nel caso in cui la decisione del Tar dovesse essere confermata, verrebbero repentinamente riproposte le numerose rivendicazioni da tempo congelate negli armadi del ministero degli esteri a Zagabria.
La Croazia, del resto, ha da tempo annunciato la sua intenzione di rivedere l'attuale normativa sui beni nazionalizzati, il che rappresenta anche uno degli impegni che rientrano nella trattativa della sua adesione alla UE.
La sentenza suddetta ha creato allarme non solo a Zagabria ma anche nelle amministrazioni regionali e cittadine costiere.
Da un sommario inventario, risulterebbe che nella sola Spalato le proprietà rivendicate da stranieri siano almeno 72 (case di abitazione, antichi palazzi, poderi, aree edificabili ecc.). Nella sola cinta urbana spalatina gli immobili rivendicati sarebbero oltre 40 (32 richiesti da cittadini italiani, 5 da persone residenti negli USA e 3 da cittadini tedeschi). A Zara, che detiene il primato in Dalmazia in quanto a istanze di restituzione di beni nazionalizzati, le proprietà rivendicate da stranieri sarebbero un'ottantina, fra le quali spicca la sede della “Maraska”, ossia della storica distilleria del Maraschino, rivendicata dagli eredi Luxardo. A Sebenico, si sa per certo che le proprietà rivendicate da cittadini italiani sono una decina.
Venendo alla Slovenia, la legge di denazionalizzazione del 29 novembre 1991 è stata prima emendata con legge n. 720 del 16 settembre 1998. Successivamente, la Corte Costituzionale slovena ha preso in esame tali emendamenti con la sentenza 30 settembre 1998, dichiarando l'illegittimità costituzionale dell'art. 9 della legge, che limitava il diritto alla restituzione a quanti avessero originariamente, o avessero acquistato successivamente, la cittadinanza jugoslava.
Tuttavia, l'art. 10 della legge slovena recita ancora: “non avranno diritto, ai sensi della presente legge, quelle persone fisiche che hanno percepito o avevano il diritto di percepire un indennizzo, per la sottrazione del patrimonio, da parte di uno Stato straniero”, alludendo agli accordi conclusi tra la Jugoslavia con l'Italia e con l'Austria.
Per comprendere pienamente la questione dei “beni abbandonati”, occorre prendere le mosse dal significato delle misure di “nazionalizzazione, riforma agraria o di confisca”, adottate dalle autorità jugoslave circa la proprietà dei beni a partire dal 1945.
Non si tratta di misure di esproprio – come potrebbe apparire naturale agli occhi di un osservatore occidentale – quanto, piuttosto, dell'avocazione di taluni beni ad un regime di proprietà del tutto nuovo e originale, introdotto nel diritto civile jugoslavo dopo la rivoluzione comunista e la guerra.
La proprietà sociale (drustveno vlasnistvo) è un'elaborazione socialista dei rapporti di proprietà relativi agli immobili, che vigeva nella sola Jugoslavia. Tali beni non erano di proprietà dello Stato jugoslavo, bensì della società jugoslava intesa come “pluralità di uomini e donne lavoratori”.
Tale proprietà sociale veniva soltanto concessa in uso allo Stato, agli enti locali e ai privati.
Per effetto del “Memorandum” del 1954, i beni sottratti sono stati, nella maggioranza dei casi, iscritti nei libri fondiari come proprietà sociale concessa in uso ai Comuni.
L'acquisto come “proprietà sociale” avveniva “a titolo originario” e non “derivativo”: ciò implicava la nascita di un diritto nuovo e non la cessione dell'antico.
Con le leggi di denazionalizzazione, come sopra osservato, l'istituto della “proprietà sociale” è stato abolito: i beni ritornano, ove possibile, ai proprietari di un tempo, facendo quindi nascere, oggi, un diritto alla restituzione, coniugato all'originario diritto di proprietà.
Il fatto che l'acquisto fosse avvenuto, a suo tempo, a titolo originario, indica chiaramente come, una volta abolito l'istituto della “proprietà sociale”, non possa che rivivere il diritto di proprietà, anche se alla stregua di diritto alla restituzione. Tanto è vero che la legge croata dispone la restituzione ai precedenti proprietari.
Se, viceversa, si fosse trattato di acquisto a titolo derivativo, la cessione avrebbe avuto carattere definitivo, trasferendo al cessionario la totalità dei diritti del cedente.
Considerando l'insieme degli accordi internazionali tra Italia e Jugoslavia alla luce del loro oggetto e del loro scopo (criterio interpretativo fissato dalla Convenzione di Vienna del 1969 sul diritto dei trattati), si può osservare che l'Italia:
riconosceva l'introduzione dei regimi di proprietà pubblica e sociale nell'ordinamento jugoslavo ed il conseguente mutamento che si verificava sui diritti di proprietà privata;
rinunciava a pretendere l'applicazione delle norme contenute nel Trattato di Pace riguardo ai beni dei cittadini italiani nei territori ceduti;
si obbligava a non proporre nei confronti della Jugoslavia rivendicazioni riguardo a tali beni.
Quale contropartita di quest'ultimo obbligo, di carattere negativo, la Jugoslavia si impegnava a versare all'Italia determinate somme a titolo di indennizzo; esse rappresentavano il corrispettivo della mancata restituzione dei beni prevista dai vari trattati e della sottoposizione dei beni stessi ai regimi di proprietà pubblica e sociale instaurati nell'ordinamento jugoslavo.
La presenza e la permanenza del regime proprietario in questione costituiscono il presupposto fondamentale della disciplina pattizia e la condizione logica e giuridica della sua operatività.
Con il mutamento del regime della proprietà intervenuto negli ordinamenti sloveno e croato a seguito dell'emanazione delle leggi di denazionalizzazione, rispettivamente, come si è visto, nel 1991 e nel 1996, il presupposto fondamentale della disciplina è venuto meno.
L'esigenza di convenire sulla difficoltà di procedere alla restituzione dei beni e di astenersi dal formulare pretese al riguardo si era, invero, profilata in relazione al regime della proprietà allora vigente in Jugoslavia.
La trasformazione dell'assetto proprietario in Slovenia e Croazia e l'abolizione del regime della proprietà sociale rappresentano, incontestabilmente, un mutamento fondamentale delle circostanze, che facevano parte della base essenziale del consenso che aveva portato alla disciplina pattizia.
Inoltre, il mutamento intervenuto ha radicalmente trasformato la portata dell'obbligo, precedentemente assunto dall'Italia, di non avanzare alcuna ulteriore rivendicazione in relazione ai beni sottoposti ai regimi della proprietà pubblica e sociale.
Sono, dunque, presenti entrambi gli elementi che, alla luce dell'art. 62 della Convenzione di Vienna sui diritto dei trattati, giustificano la risoluzione di un trattato.
Si tratta della clausola “rebus sic stantibus”, vista come causa di estinzione degli accordi internazionali.
Ritenere vigente tale clausola significa ritenere che un trattato si estingua, in tutto o in parte, per il mutamento delle circostanze di fatto esistenti al momento della stipulazione del trattato stesso, purché si tratti di circostanze essenziali, senza le quali i contraenti non si sarebbero indotti al trattato o a parte di esso.
Nella storia antica troviamo riferimenti alla rilevanza del mutamento delle circostanze.
Un'approfondita esplorazione della problematica si trova in Polibio, che descrisse una sentenza dell'assemblea spartana del 211 a.C., chiamata a decidere se mantenere in vigore un trattato di alleanza con gli Etoli o sostituirlo con una nuova alleanza con la Macedonia.
Polibio parlò di “radicale mutamento delle cose di Grecia”, che egli ritenne essersi verificato a seguito dell'intervento dei barbari Romani, a vantaggio dei quali avrebbe giocato il mantenimento dell'alleanza con gli Etoli (Polibio, Storie).
Il pensiero di storici e moralisti greci e latini venne ripreso nel “diritto delle genti” dal sedicesimo secolo: Grozio utilizzò tale tesi nel definire i rapporti tra gli Stati. Egli sostenne che non si può pensare che uno Stato avesse inteso obbligarsi a proprio svantaggio, quando si crea una situazione di “impossibilità morale”, provocata dal mutamento delle circostanze.
Il pensiero groziano venne ripreso da Pufendorf, Textor e poi da Vattel, che ritenne che se l'esistenza di un certo stato di fatto era stata determinante per l'assunzione di un obbligo, la permanenza di tale obbligo si legasse indissolubilmente alla permanenza dello stato di fatto.
Fino al diciannovesimo secolo, dall'inquadramento dell'istituto del mutamento delle circostanze derivano due importanti conseguenze:
l'effetto del mutamento può essere solo estintivo;
l'estinzione del trattato è del tutto automatica, a partire dal momento in cui il mutamento si è verificato.
Dal diciannovesimo secolo in poi, numerosi autori hanno sostenuto che tutti i trattati internazionali si intendono conclusi con la tacita clausola “rebus sic stantibus”. Tra essi, Fauchille sostenne che “les traités conclus sans fixation de dureé doivent etre toujours censés contenir une clause rebus sic stantibus, c'est à dire avoir etre signés sous la reserve tacite qu'ils cesseront d'etre en vigueur quand les circostances à raison desquelles il ont eté conclus auront cessé d'exister: la fin d'un traité doit inévitablement suivre la disparition des causes qui l'ont occasioné”.
Altri hanno giustificato la validità del principio con motivi di giustizia, equità, di necessità oppure legittima difesa.
La storia diplomatica del XIX e XX secolo presenta numerosi esempi di trattati denunciati da una delle parti contraenti adducendo il motivo di sopravvenuto mutamento delle circostanze di fatto in vista delle quali furono stipulati. Si ricordano, tra i più importanti: nel 1870, la denuncia da parte della Russia degli articoli del Trattato di Parigi del 1856 relativi alla smilitarizzazione del Mar Nero; nel 1908, l'annessione da parte dell'Austria-Ungheria delle Province della Bosnia e Erzegovina; nel 1919 la richiesta da parte dell'Italia della città di Fiume.
In contrapposizione alle tesi di cui sopra, nel periodo precedente alla Convenzione di Vienna, molti autori ritennero che solo la norma “pacta sunt servanda” avesse reale protezione giuridica e che non ci sarebbe prova dell'esistenza di una consuetudine che riconosca cittadinanza nell'ordinamento internazionale alla clausola “rebus sic stantibus”.
Essi autori consideravano il principio “pacta sunt servanda” indispensabile per la convivenza pacifica degli Stati negando alla clausola “rebus sic stantibus” la natura di vero e proprio istituto giuridico, configurandola come semplice motivo di revisione dei trattati.
Il primo a negare ogni valenza giuridica alla clausola fu Bruno Schmidt, che ravvisò in essa una “massima di esperienza” che fondata sulla “forza delle cose”, un limite al vigore delle norme giuridiche internazionali.
A tale teoria aderì l'italiano Salvioli, che considerò il principio espresso dalla clausola solo come fatto, un “quid” di “pregiuridico” e affermò che i trattati debbono giuridicamente valere e vincolare.
La Convenzione di Vienna del 1969 sul diritto dei Trattati, all'art. 62, comma 1, dispone che “un cambiamento fondamentale delle circostanze intervenuto rispetto alle circostanze esistenti al momento della conclusione di un trattato e che non era stato previsto dalle parti non può essere invocato come motivo di estinzione o recesso, a meno che: l'esistenza di tali circostanze non abbia costituito una base essenziale del consenso delle parti a vincolarsi al trattato; e che tale cambiamento non abbia per effetto di trasformare radicalmente la portata degli obblighi che rimangono da adempiere in base al trattato”.
Non si potrebbe opporre, per non procedere alla restituzione dei beni, l'avvenuto o previsto versamento di un indennizzo. Infatti, la maggior parte dei beni erano stati soggetti al regime di proprietà sociale; tale indennizzo era quindi commisurato non alla cessione della proprietà privata ma alla sua trasformazione in proprietà sociale; qualora una persona ottenesse oggi la restituzione del bene dopo aver conseguito anche l'indennizzo, non ne trarrebbe un arricchimento: non bisogna dimenticare l'enorme differenza tra ammontare dell'indennizzo e il valore di mercato del bene al quale si riferisce.
Tornando al tema della possibilità di applicazione del regime della Convenzione europea dei diritti dell'uomo (e dei principi elaborati dalla Corte dei diritti dell'uomo) in relazione alle “leggi di denazionalizzazione”, non pare che essa possa negarsi, soprattutto se si pone attenzione al fatto che le esclusioni previste dalle due leggi di denazionalizzazione rispetto al diritto, riconosciuto in via generale, alla restituzione dei beni nazionalizzati (“i precedenti proprietari non avranno diritto alla restituzione se la questione sia stata oggetto di trattati internazionali”: legge slovena del 1991 e legge croata del 1996, dopo le modifiche introdotte con legge del 5 luglio 2002), appaiono in aperto contrasto con l'art. 1 del Protocollo addizionale e l'art. 14 della Convenzione europea, costituendone una grave violazione.
Sotto un primo profilo, va sottolineato che il significato e l'effetto delle due leggi di denazionalizzazione è quello di cancellare, del tutto e per tutti, il regime di proprietà pubblica e sociale. Stabilire in queste condizioni il mantenimento del diritto di proprietà in capo agli enti pubblici – Stato e/o Comuni che in precedenza erano titolari della proprietà sociale – negando agli antichi titolari il diritto di riacquistare la loro proprietà significa, in realtà, operare un nuovo trasferimento coattivo del diritto di proprietà a favore del titolare della proprietà sociale. Sotto l'apparenza del mantenimento dello “status quo ante”, nella sostanza le leggi di denazionalizzazione sanciscono una seconda nazionalizzazione: vale a dire una privazione del diritto a riottenere i propri beni, attuandone il trasferimento coattivo a favore dell'ente pubblico.
Ciò si pone certamente in contrasto con gli obblighi assunti con l'adesione di Croazia e Slovenia al Protocollo n. 1 e precisamente con l'obbligo nascente dalla seconda norma derivante dall'art. 1 di tale Protocollo, quello di non privare un soggetto della proprietà dei suoi beni se non per causa di “utilità pubblica”, come previsto in via di eccezione dall'art. 1 del Primo Protocollo.
Si tratta di un atto di espropriazione mascherato, per il quale la questione dell'esistenza di una ragione di pubblica utilità non viene neppure adombrata.
E' inoltre il caso di ricordare che dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo si desume il principio – enunciato ad esempio nella ricordata sentenza Sporrong e Lonnroth – per cui il sistema della Convenzione è destinato a tutelare “diritti concreti ed effettivi”; pertanto deve considerarsi vietato come espropriazione non soltanto ogni provvedimento formalmente destinato al trasferimento coattivo di un bene, ma anche qualsiasi provvedimento tale da pregiudicare l'esercizio del diritto, costituendo una sorta di “espropriazione di fatto”.
Un altro profilo merita di essere approfondito.
Le normative slovena e croata stabiliscono che siano esclusi dal diritto alla restituzione tutti coloro che abbiano percepito o diritto di percepire un indennizzo da uno Stato straniero.
Tali normative sono chiaramente ispirate alla necessità di evitare una doppia percezione del compenso per lo stesso bene. In realtà, siamo di fronte a disposizioni discriminatorie in ragione della nazionalità dei soggetti.
Invero, è indubbio che la disposizione non può che riguardare cittadini stranieri, posto che è evidente che soltanto costoro possono essere beneficiari di indennizzi previsti da accordi internazionali.
Ma la discriminazione sussiste anche dal punto di vista per così dire “materiale”, posto che ai cittadini sloveni e croati viene riconosciuto un diritto alla restituzione dei beni in natura e quindi nel loro valore attuale, mentre agli stranieri tale diritto viene negato e sostituito da una modesta somma di denaro versata a titolo di indennizzo.
Non si tratta, pertanto, della negazione di un diritto del quale gli stranieri abbiano, seppure in forma diversa, già usufruito, ma dell'aperto rifiuto ad attribuire agli stranieri lo stesso trattamento che, in sede di ripristino del regime di proprietà privata, viene riservato ai cittadini croati e sloveni.
In relazione alla Slovenia, che appartiene alla Unione Europea, va, inoltre, ricordata la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione, firmata a Nizza il 7/12/2000, che, all’art. 17, riconosce il diritto di proprietà nel capitolo denominato “libertà” e recita: “ogni individuo ha il diritto di godere della proprietà dei beni che ha acquistato legalmente, di usarli, di disporne e di lasciarli in eredità. Nessuno può essere privato della proprietà se non per causa di pubblico interesse, nei casi e nei modi previsti dalla legge e contro il pagamento in tempo utile di una giusta indennità per la perdita della stessa. L’uso dei beni può essere regolato dalla legge nei limiti imposti nell’interesse generale”.
Come noto, la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea e, in particolare, il suddetto art. 17, dedicato al diritto di proprietà, va considerata alla stregua di importante affermazione di principi fondamentali e generali ricavati sia dalla CEDU e dai Trattati, sia dalle tradizioni costituzionali comuni degli Stati membri, sia dalla giurisprudenza della Corte di giustizia e della Corte europea dei diritti dell’uomo.
Avv. Antonio Salvatore

mercoledì 4 febbraio 2009

LA RESISTENZA ALL'ORDINE ILLEGITTIMO DELL'AUTORITA': DALLA LEGITTIMITA' AL DOVERE

(Relazione tenuta il 13 febbraio 2008 dall'Avv. Antonio Salvatore in occasione della "Giornata della Memoria" presso la Biblioteca Ariostea di Ferrara)

Il tema della legittimità della resistenza all’ordine illegittimo dell’autorità ha radici antiche e si propone, per la prima volta, con l’avvento del Cristianesimo, per il quale l’obbedienza a Dio viene prima di quella alle leggi dello Stato (“obedire oportet Deo, magis quam hominibus” – Act. 5, 29).
Nello stesso “Corpus Juris Canonici” è indicato come nullo e non vincolante il comando illegittimo del pubblico funzionario. E non soltanto è dichiarata la nullità del comando (e quindi legittimata la “resistenza passiva”), ma è, altresì, concessa la facoltà di “resistenza attiva”, vale a dire quella di opporre la forza alla forza (“vim vi repellere licet”).
Non è questa la sede per discutere se la suddetta dottrina canonistica legittimante la resistenza contro un atto ingiusto - “et etiam vi facta” - fosse ispirata dal precipuo scopo di salvaguardare i diritti ecclesiastici, piuttosto che dal più “nobile” ed “elevato” intento di garantire il rispetto della legge divina da eventuali interferenze dello Stato.
Nel Medioevo tale dottrina venne approfondita da San Tommaso d’Aquino, sia nella “Summa Theologica” (1266) che nel “De regimine principium” e da Marsilio da Padova, nel “Defensor Pacis” (1324).
In età moderna ne ha trattato Ugo Grozio, considerato il fondatore del diritto internazionale.
Autorevoli costituzionalisti fanno risalire il riconoscimento giuridico del diritto di resistenza alla “Bulla Aurea” di Andrea II di Ungheria (art. 31) del 1222 e alla “Magna Charta” inglese del 1215 (paragrafo 61).
La resistenza al comando illegittimo dell’autorità può rilevare sia come facoltà (nel senso che il soggetto cui l’ordine è rivolto è legittimato a resistervi, tanto in senso passivo, non eseguendo il comando, quanto in senso attivo, ricorrendo all’uso della forza) sia come vero e proprio obbligo giuridico (nel senso che il soggetto ha il dovere giuridico di disobbedire all’ordine): in quest’ultimo senso, l’art. 51, comma terzo, del codice penale italiano stabilisce che del reato commesso in esecuzione dell’ordine criminoso dell’autorità risponde anche “chi ha eseguito l’ordine (…)”.
E’ ben evidente come la resistenza vista come obbligo giuridico sia un “quid pluris” rispetto alla mera situazione di legittimità a non eseguire l’ordine: è soltanto attraverso l’imposizione dell’obbligo di non eseguire l’ordine illegittimo che, invero, è possibile realizzare compiutamente l’affermazione dei diritti di libertà e perseguire i crimini contro l’umanità.
A tale proposito, appare opportuno ricordare il giurista tedesco Rudolf von Jhering (n. 1818 – m. 1882) il quale nell’opera “Der Kampfs ums Recht” (“La lotta per il diritto”), pubblicata nel 1872, affermò che “la resistenza contro l’ingiustizia è dovere; dovere della persona verso sé stessa e verso la comunanza”.
Il problema di giudicare la violazione dell’obbligo di non obbedire all’ordine illegittimo dell’autorità (nonché quello di ricorrere ad istituzioni giurisdizionali sovranazionali per giudicare gravi crimini individuali) si pose, per la prima volta, nel 1474, allorché il “Landvogt” (“governatore”) Peter Von Hagenbach (n. 1423 – m. 1474), cavaliere comandante della IX Compagnia d’ordinanza delle truppe Duca Carlo I di Borgogna, fu processato e condannato a morte per omicidio, stupro e altri crimini contro le “leggi di Dio e dell’uomo” commessi durante l’occupazione della città di Breisach.
Bisogna ricordare che la Borgogna, nel quindicesimo secolo, era un grande Principato che il Duca Carlo I (soprannominato “il Temerario”) mirava a ingrandire, desideroso di ricostituire l’antico regno di Lotario, dalle Fiandre all’Italia.
Il Duca di Borgogna inviò Von Hagenbach a Breisach, città sull’Alto Reno, con l’ordine di ridurre alla sottomissione più totale gli abitanti di quella città, posta sotto occupazione bellica.
Von Hagenbach, in esecuzione degli ordini del Duca, instaurò nella città un regime fondato sul terrore, commettendo assassinii, stupri, confische, tassazioni illegali, che danneggiarono anche gli abitanti delle terre vicine e i mercanti svizzeri che transitavano nella zona per recarsi alla Fiera di Francoforte.
In seguito a una rivolta degli abitanti di Breisach, ai quali si unirono alcuni mercenari tedeschi, Von Hagenbach venne catturato sul territorio dell’Arciduca d’Austria.
Nel 1474 l’Arciduca ordinò che Von Hagenbach venisse processato e si istituì una Corte “ad hoc”, composta da ventotto giudici, provenienti da varie città della coalizione alleata (Strasburgo, Basilea, Colmar e Sélestat), con un Presidente nominato dall’Arciduca.
La Confederazione Svizzera designò alcuni giudici e si può affermare che (attesa la sua indipendenza, sebbene all’epoca non ancora formalmente riconosciuta) quella Corte fosse un vero e proprio tribunale internazionale.
Secondo l’accusa, Von Hagenbach, nell’eseguire gli ordini del Duca di Borgogna, aveva “calpestato le leggi di Dio e dell’uomo”.
Per la difesa, Von Hagenbach non aveva fatto che obbedire agli ordini del Duca di Borgogna cui non poteva sottrarsi, in qualità di “Landvogt”.
Per raccogliere prove, la difesa chiese un rinvio del processo, che non venne concesso, essendo giudicata, tale richiesta, “contraria alle leggi di Dio”.
Von Hagenbach venne privato del titolo di cavaliere, condannato alla pena capitale e giustiziato, poiché “in quanto cavaliere, l’imputato avrebbe dovuto impedire la commissione dei crimini per i quali, invece, era stato processato”.
Fu un caso isolato, in quanto, all’epoca si riteneva che, terminato un conflitto, fosse necessario, per stabilizzare la pace raggiunta, pervenire a una sorta di amnistia.
Invero, prima del Trattato di Versailles (28 giugno 1919), era pressoché inconcepibile anche solo ipotizzare un’incriminazione dei responsabili di crimini di guerra fondata sulla loro responsabilità individuale.
Il tema del dovere di resistenza all’ordine illegittimo dell’autorità si è riproposto alla fine del secondo conflitto mondiale, dopo la tragedia dello sterminio di milioni di esseri umani – soprattutto ebrei – all’interno dei lager nazisti.
Dopo molti mesi di collaborazione, le quattro potenze vincitrici (U.S.A., Gran Bretagna, Francia e Russia) sottoscrissero, l’8 agosto 1945, il Trattato di Londra, che, all’art. 1, istituì il Tribunale Militare Internazionale di Norimberga.
Nell’articolo 1 dello Statuto del Tribunale si stabilì il principio della responsabilità penale di coloro che hanno commesso “crimini di guerra” o “contro l’umanità”, anche se in esecuzione di ordini emanati da un’autorità superiore. In particolare, per quanto riguarda quest’ultimo aspetto, l’art. 8 stabilì che “il fatto che un imputato abbia agito in ossequio a ordini del proprio governo o di un proprio superiore non libererà l’imputato medesimo dalla responsabilità penale, ma potrà costituire attenuante all’atto della comminazione delle pene che il tribunale riterrà di infliggere all’imputato medesimo”.
Durante il processo di Norimberga, le difese degli imputati, pur non negando la commissione dei crimini da parte dei loro assistiti, ne contestavano la punibilità, dichiarando che avevano semplicemente obbedito agli ordini dei superiori, perfettamente legittimi in rapporto all’ordinamento giuridico del tempo e del luogo in cui i crimini furono eseguiti.
Gli imputati venivano, nell’impostazione difensiva, considerati meri funzionari statali, operanti in perfetta conformità con le norme giuridiche allora vigenti, dettate da organi dello Stato nazionalsocialista e, nel corso del processo di Norimberga, protestarono contro quella che percepivano come un’ingiustizia: essere giudicati dai vincitori in base a norme da questi ultimi create.
In realtà, non deve dimenticarsi che, durante il regime nazista, non era stato affatto abrogato l’articolo del codice penale militare tedesco in base al quale “all’ordine manifestamente criminale non si deve obbedire” e neppure il paragrafo che stabiliva che “il fatto che la persona abbia ritenuto di dovere obbedire alla sua coscienza o ai precetti della sua religione non esclude che un’azione o un’omissione possa essere punita”.
La Corte di Cassazione italiana (Cass., sez. I penale, sentenza 16 novembre 1998) si è, ormai dieci anni fa, occupata del tema in questione nel c.d. processo “Hass - Priebke” per l’atto di rappresaglia delle Fosse Ardeatine che seguì ai fatti di via Rasella.
Come noto, alle ore 15 del 23 marzo 1944, all’interno della città di Roma, in via Rasella, al passaggio di una compagnia di polizia tedesca del battaglione “Bozen”, avveniva lo scoppio di una carica di esplosivo, accompagnato dal lancio di bombe a mano: all’esito dell’attentato, opera di una squadra di partigiani italiani appartenente all’organizzazione clandestina di resistenza contro le forze militari occupanti, perdevano la vita trentadue soldati tedeschi.
Il tenente colonnello delle SS, Herbert Kappler, comandante della “Aussenkommando” della polizia e del servizio di sicurezza di via Tasso durante l’occupazione di Roma da parte delle truppe tedesche, giunto poco dopo sul posto, ebbe immediato incarico di occuparsi dell’attentato e, in particolare, venne incaricato di preparare un elenco di trecentoventi persone (dieci per ogni soldato tedesco che aveva perso la vita nell’attentato) da fucilare a titolo di rappresaglia.
Kappler, riuniti a rapporto gli ufficiali (tra cui il capitano Erich Priebke e il maggiore Herbert Hass, entrambi appartenenti alle SS), dispose che tutti gli uomini del suo comando partecipassero all’esecuzione, mediante esplosione di un solo colpo alla testa di ciascuna vittima, mentre il capitano Priebke fu incaricato di controllare il numero delle persone via via fucilate: inoltre, ciascuno degli ufficiali avrebbe dovuto eseguire personalmente almeno una fucilazione, a fini di esemplarità per la truppa.
Informato poco dopo del sopravvenuto decesso di un altro soldato tedesco, Kappler dispose di includere nell’elenco altri dieci ebrei arrestati quella mattina.
La fucilazione ebbe luogo a partire dal pomeriggio fino alla sera del 24 marzo, all’interno delle Cave Ardeatine: nell’antistante piazzale giungevano gi autocarri con le vittime. Le operazioni erano dirette dal capitano Schutz, il quale avvertì i militari della truppa che quanti non si sentivano di sparare non avevano altra via di uscita che mettersi accanto alle vittime designate, per condividerne il medesimo destino.
I nomi delle vittime venivano cancellati di volta in volta dall’elenco tenuto dal capitano Priebke, rimasto sul posto fino alle ore 19, quando l’eccidio ebbe termine; ciascuno degli ufficiali (quindi anche gli stessi Priebke ed Hass) eseguì personalmente almeno due uccisioni per dare l’esempio alla truppa; subito dopo alcune mine fatte brillare chiusero l’accesso alla cava.
I morti furono complessivamente trecentotrentacinque, quindici in più rispetto ai trecentoventi corrispondenti al fissato parametro di dieci a uno.
La Corte di Cassazione, con la suddetta sentenza, ha escluso l’applicazione, in favore degli imputati Priebke e Hass (che, come sopra riferito, avevano partecipato, anche attivamente, alla strage delle Fosse Ardeatine), della esimente di cui all’allora vigente (è stato abrogato dall’art. 22 della legge 11 luglio 1978 n. 382) art. 40 del codice penale militare di pace (giusta il quale “se un fatto costituente reato è commesso per ordine del superiore (…), del reato risponde sempre chi ha dato l’ordine”, ma ne risponde “anche il militare che ha eseguito l’ordine quando l’esecuzione di questo costituisce manifestamente reato”).
Per la Cassazione “anche l’insindacabilità e la vincolatività dell’ordine, proprie del sistema gerarchico militare, trovano un limite razionale nell’intrinseco, oggettivo ed evidente contenuto criminoso dell’ordine superiore, per ciò stesso percepibile sempre e comunque dal subordinato, il cui dovere di attenzione e vigilanza viene così richiamato ai fini del prescritto dovere di obbedienza; sicché se il comportamento ordinato risulta indiscutibilmente criminoso nell’opinione comune radicata nel tipo medio di persona non potrà giammai essere invocata, da parte dell’esecutore, l’inconsapevolezza o la non percepibilità della delittuosità del fatto come causa – di natura personale e soggettiva – di esclusione della responsabilità e della pena”.
Sembra, peraltro, di poter affermare che, a sostegno della tesi della non applicabilità, agli imputati, dell’esimente di cui all’art. 40 del codice penale militare di pace vi possa essere una ragione diversa e assorbente.
Va tenuto, invero, conto del fatto che sia Priebke che Hass erano appartenenti alla “polizia di sicurezza” (“Si.po.”), sotto la direzione di Himmler e, come tutti i componenti della “Si.po.”, erano inquadrati, fin dal 1939, nelle “SS”.
La “Si.po.” aveva compiti di polizia politica per l’individuazione dei gruppi degli avversari del “Reich” , nonché di persecuzione politica e razziale, nel quadro istituzionale delle “SS”, organo dello Stato-partito, componente privilegiata di esso, una specie di Super-Stato, essendone i membri responsabili solo di fronte al tribunale speciale del corpo.
Ai componenti della “Si.po.” erano affidati compiti che presupponevano l’emanazione di ordini necessariamente coinvolgenti l’esercizio criminoso della violenza, rispetto ai modelli legali di comportamento regolati dai codici e dalla legge penale del “Reich”: ordini la cui sistematica esecuzione aveva insanguinato, per l’intera durata del conflitto, le retrovie dell’Est europeo, secondo le prescrizioni dell’ordinanza “Nacht und Nebel” (notte e nebbia”), emanata da Hitler il 7 dicembre 1941, in base alla quale la polizia di sicurezza era tenuta a far sparire “nella notte e nella nebbia”, senza processo per non provocare disordini, chiunque fosse considerato attentatore alla sicurezza del “Reich”.
Questa ordinanza era stata preceduta dalle “direttive” del marzo dello stesso anno, con alcune delle quali – “segretissime” – si affidavano a Himmler “compiti speciali” da svolgere, “indipendentemente dall’esercito”, nelle aree occupate che dovevano rimanere chiuse a ogni interferenza esterna. Direttive che, tradotte in pratica nello sterminio di militari prigionieri e di appartenenti alla popolazione civile, trovavano la propria base nel discorso sulla “guerra ideologica” tenuto, nello stesso mese di marzo del 1941, da Hitler ai capi delle tre armi.
A tali direttive si opposero fermamente uomini come il generale Ludwig Beck – poi morto suicida – il quale affermava che “il dovere di obbedienza del militare termina là dove consapevolezza e coscienza e senso di responsabilità vietano l’esecuzione di un ordine”.
Pertanto, nell’ambito di organizzazioni come la “Si.po.”, nessun problema di eseguire o meno l’ordine criminoso si poneva – salvo remote ipotesi di una crisi di coscienza, peraltro, a quanto consta, mai registrate tra gli ufficiali – agli specialisti della persecuzione politica e razziale.
Né la dismisura della rappresaglia è cosa qualitativamente, cioè giuridicamente, diversa dalla tortura di un prigioniero. Sempre, l’operazione diretta alla soppressione di innocenti ed all’eliminazione di ogni residuo di sopravvivenza ebraica assumeva giuridicamente i contorni di un atto del sistema repressivo nazista, conforme alle ordinanze degli ufficiali superiori delle “SS”, ispirate ai dettami di Hitler, di fronte alle quali rimaneva lettera morta ogni contraria disposizione dello stesso ordinamento penale e processuale tedesco: col risultato di un unico amalgama tra l’ordine criminoso e la sua esecuzione nell’intima relazione di corresponsabilità intercorrente tra titolari di comandi, organi, uffici e individui che ne facevano parte (corresponsabilità, se mai, graduabile in termini quantitativi), a qualunque livello nelle gerarchie militari e politiche.
Inoperatività, dunque, del precetto di cui all’art. 40 del codice penale militare di pace, che presuppone l’obbligo di osservare con onore la legge militare di pace e di guerra e pertanto, nel caso di violazione di essa, ascrive la responsabilità al superiore, per estenderla all’inferiore (che esegue l’ordine) solo quando si manifesti il carattere criminoso dell’ordine, con diritto dell’inferiore di rifiutarne l’esecuzione e obbligo di riferirne senza indugio all’autorità sovraordinata: si tratta, evidentemente, di distinzioni che perdono il loro precipuo significato in relazione all’illecito compiuto, in concorso tra loro, da soggetti reciprocamente vincolati dal “pactum sceleris”.
La tesi appena esposta è stata portata alle estreme conseguenze (essendo stata “allargata” a migliaia di comuni cittadini tedeschi) da D.J. Goldhagen (“I volenterosi carnefici di Hitler”, Milano 1996) e di E. A. Johnson (“Il terrore nazista. La Gestapo, gli ebrei e i tedeschi, Milano, 2001), per i quali gli “ordini superiori” – così come le leggi naziste nel loro complesso – non furono disubbiditi perché non fecero altro che dare espressione a quella cultura antisemita fortemente sedimentata nell’animo di migliaia di cittadini comuni tedeschi, che scelsero di “imbracciare un fucile” per “concorrere alla soluzione del problema ebraico”.
La suddetta pronuncia della Corte di Cassazione imprime il sigillo definitivo del controllo di legittimità ad una delle vicende più tragiche della seconda guerra mondiale.
Ma da una delibera del Consiglio della magistratura militare (seduta del 23 marzo 1999), in esito a un’inchiesta svolta sui procedimenti per crimini di guerra, risulta che diverse centinaia di fascicoli concernenti decisioni a carico di militari tedeschi perfettamente identificati, sono stati trasmessi alle competenti procure militari soltanto negli anni 1994 – 1996.
“Con conseguenze ormai irreparabili” – sottolinea il Consiglio nella delibera – “da ascrivere solamente alla procura generale presso il Tribunale supremo militare, ufficio responsabile dell’abusivo trattenimento degli atti”.
Tale segnalazione comporterà, ovviamente, un ulteriore approfondimento nelle competenti sedi, anche per il coinvolgimento, a giudizio del Consiglio, “della responsabilità di altri organi e apparati dello Stato”.
Concludiamo segnalando che – come si apprende dalla lettura della più volte menzionata delibera – le notizie di reato registrate nel “ruolo generale dei procedimenti” per i suddetti crimini di guerra sono duemiladuecentosettantaquattro e, di esse, quella dell’eccidio delle Fosse Ardeatine è contrassegnata con il numero uno.
Avv. Antonio Salvatore

DANTE, IL DIRITTO PENALE E L'EUROPA

(relazione tenuta dall'Avv. Antonio Salvatore nel 2007 a Ferrara presso la Sala dell’Arengo)

Il mio fortunato reperimento - dopo anni di paziente ricerca - presso una libreria antiquaria di Treviso, della seconda edizione dello scritto dell’Avv. Ciriaco De Antonellis, intitolato “De’ principi di diritto penale che si contengono nella Divina Commedia”, ha costituito l’occasione della stimolante conferenza, tenuta dal Prof. Mario A. Cattaneo, dal titolo “Dante, il diritto penale e l’Europa”.
L’opera, citata nel primo capitolo del volume del Prof. Mario A. Cattaneo, Suggestioni penalistiche in testi letterari”, (“Studi su Dante e il diritto penale”, op. cit., pag. 1 e ss.), è dedicata al problema del diritto penale nella Divina Commedia e nel pensiero di Dante.
La tesi di De Antonellis è che Dante possa esser considerato un precursore degli scrittori che, dopo di lui, hanno contribuito all’incivilimento e ai progressi del diritto penale (circostanza tanto più mirabile laddove si consideri lo stato in cui versava tale legislazione nell’epoca in cui il Poeta viveva) e che la Divina Commedia possa esser considerata una vera e propria fonte del diritto penale, un sistema compiuto di reati e pene e, a suffragio di tale assunto, cita vari luoghi del poema, tra cui spicca il celeberrimo canto del conte Ugolino.
Bisogna ricordare che, ai tempi di Dante, era in vigore (per essere stata recepita nell’opera legislativa di Giustiniano) la Costituzione di Arcadio, che – recependo la teoria della c.d. “corruzione del sangue” - estendeva ai discendenti dei colpevoli di alto tradimento la pena prevista per questi ultimi.
De Antonellis osserva che Dante, nel biasimare – con l’invettiva “Ché se ‘l conte Ugolino aveva voce/d’aver tradita te de le castella,/non dovei tu i figliuoi porre a tal croce./ Innocenti facea l’età novella” Inferno, XXXIII, 85-88) - l’arcivescovo Ruggieri, che aveva voluto estendere la pena prevista per l’alto tradimento anche ai figli del conte, aveva affermato il principio della personalità della pena, che deve colpire unicamente l’autore del reato.
Sempre nell’ottocento, anche il grande criminalista Francesco Carrara (che certamente avrà avuto modo di leggere lo scritto di De Antonellis), nel secondo volume dell’opera “Opuscoli di diritto criminale” (Lucca, 1870, p. 649 e ss.), dedicò un piccolo studio alla figura di Dante “criminalista”, citando l’episodio del conte Ugolino, ma per approdare a conclusioni opposte circa la possibilità di considerare Dante un “precursore”, nel senso sopra precisato, del diritto penale.
Invero Carrara – pur riconoscendo la modernità del pensiero del Poeta e il suo “coraggio” nell’affermare l’innocenza dei figli del conte in un’epoca, la sua, in cui “il diritto penale era cotanto in basso caduto da rendere quasi impossibile la percezione della sua idea in mezzo al fango macchiato di sangue nel quale giaceva miseramente sepolto” (op. cit., p. 651) – esclude di poter ravvisare nella Divina Commedia una fonte del diritto penale, trattandosi in tale opera “non dei rapporti tra l’uomo e l’uomo, ma quelli ben diversi tra l’uomo e Dio” (op. cit. p. 653), rapporti calati non nel “campo giuridico, ma in quello teologico”, “punendosi i semplici vizi” alla stessa stregua “dei più gravi delitti”, “il nudo consiglio all’esecuzione del reato” (cita, a questo proposito, l’episodio di Pier delle Vigne: Inferno, Canto XIII), “la tentata strage paterna quanto il parricidio compiuto, quantunque la più veloce spada del genitore rompendo il petto e l’ombra di quello sciagurato impedisse il nefando delitto” (cita l’episodio di Mordrec, Inferno, Canto XXXII).
Nell’estate degli anni cinquanta del secolo scorso, il saggista e poeta americano – ma inglese per cultura e adozione - Thomas Stearns Eliot affermò, nel corso di una conferenza tenuta a Londra presso l’Istituto Italiano di Cultura, che il debito che lo legava a Dante era “di tipo progressivamente cumulativo”.
Anche il moderno diritto penale e la stessa idea di Europa hanno un debito di tal fatta nei confronti del Sommo Poeta.
Probabilmente, solo i poeti possono consegnarci la chiave per decifrare e far emergere i nessi sotterranei tra le cose e le idee e, infatti, dobbiamo a William Butler Yeats il concetto di “Grande Memoria” e a Borges l’immagine del precursore che, assieme a tutti quelli che sono venuti e verranno dopo di lui, si fa “creatore di un unico e inesauribile libro”, in uno spazio omogeneo, quello letterario, franco dalle leggi del tempo.
Per tornare a Eliot, egli percepì con nitore l’elemento atemporale che scorre, simile a un fiume carsico, nella Divina Commedia, concependo il Poeta alla stregua di un medium che ci porta messaggi dall’aldilà, attingendo ai repertori immaginifici e simbolici del bagaglio collettivo occidentale e richiamandosi a una tradizione intesa come ordine ideale stratificatosi nei secoli in letteratura, ordine all’interno del quale tutte le opere posseggono un’esistenza “simultanea”: il che vale a dire collocarsi fuori dal tempo, se è vero che, per questa via, non è solo il presente che trova la sua guida nel passato, ma è il passato che viene modificato dal presente.
Così come non si può capire l’Inferno senza il Purgatorio e il Paradiso, tutte le idee e le esperienze umane (presenti e passate), allora, sub specie aeternitatis, hanno un ordine che le lega.
In questo senso può darsi una risposta positiva alla domanda – che costituisce il tema del volumetto del De Antonellis - se Dante possa considerarsi un “precursore” del moderno diritto penale: l’opera di Dante, modificando la concezione del passato e quella del futuro, può leggersi prescindendo dalle circostanze storiche in cui ha visto la luce, come un “libro dilatato”, in una parola come un classico.
E sempre in questo senso può darsi risposta positiva all’altra domanda: se possa parlarsi di un Dante europeo.
La risposta ce la dà, ancora una volta, Eliot, quando afferma che “Dante, pur essendo un italiano e un uomo di parte, è prima di tutto un europeo” e che la sua cultura “non era quella di un paese europeo, ma quella dell’Europa”.
Certo che un viaggio europeo nella Divina Commedia comprende varie soste, numerosi soni i personaggi che appartengono alla letteratura cavalleresca, al ciclo bretone, a quello carolingio.
L’Inferno è abitato quasi interamente da personaggi italiani, il Purgatorio allarga l’orizzonte con nomi e esempi che richiamano la carta geografica delle regioni centrali e settentrionali d’Europa e nel Paradiso la presenza di santi di ogni nazionalità ci rende partecipi degli eventi tuttora vivi nei monumenti superstiti delle abbazie, nei conventi, nelle chiese.
Ma Dante ci lancia, dal passato, un monito per il futuro: non l’Europa dell’Euro e delle Banche, ma quella delle persone, delle città, prima ancora di quella delle nazioni con la loro politica di potenza, con le loro divisioni religiose (che insanguinarono l’Europa nel seicento e minacciano di farlo ancora); l’Europa di Parigi, di Bologna, di Londra, di Firenze: la città e non la nazione, a significare unità plurale dell’Europa.
Avv. Antonio Salvatore

"LIBERTA' E GIUSTIZIA"

Relazione tenuta dall’Avv. Antonio Salvatore presso il Lions Club Ferrara Ercole I d'Este

L’Accademico di Francia e storico della rivoluzione, G. Lenotre, nell’opera “Le Tribunal Révolutionnaire” (Parigi, 1908), nel capitolo dedicato alla “Maison de Justice”, narra d’un passante che, nella capitale francese, domanda a due parigini in quale luogo si trovi “le Palais de Justice”.
Al che, uno dei due risponde: - caro signore, la Giustizia, qui, non possiede nessun palazzo, probabilmente Lei intende “la maison où l’on condamne”.
L’Autore, a questo punto, aggiunge che a Parigi, durante la rivoluzione, l’antica dimora del Parlamento aveva perduto il vecchio, rassicurante, nome di “Palais de Justice”, che sembrerebbe evocare una “dama d’alto rango”, per assumere, nel 1793, quello, più scarno, di “Tribunale”: il termine “Giustizia” scomparve, rimase solo la “maison”, nel senso di edificio, dal momento che anche il “palazzo” non esisteva più.
L’opera di Lenotre venne citata, nell’anno 1949, da un processualista italiano, Satta, in una conferenza tenuta presso l’Università di Catania, poi pubblicata in forma di saggio col titolo “Il mistero del processo” (ripubblicato dall’editore Adelphi nell’anno 1994).
Per inciso, va ricordato che a tale saggio attinse l’Avv. Giuliano Spazzali per costruire la propria arringa in occasione del processo che vedeva imputato Sergio Cusani, ravvisando un parallelismo tra gli anni bui della rivoluzione francese e la situazione che si era venuta a creare in occasione di quella che è stata comunemente definita “Tangentopoli”.
Satta cita il passo dell’opera di Lenotre – quello riguardante il cambiamento del nome, da “Palais de Justice” a “Casa dove si condanna” – per sottolineare come, nello spirito popolare, durante gli anni della rivoluzione, assassini si potevano definire sia gli appartenenti “alla folla imbestialita che emergeva dai bassifondi per riversarsi sui ponti della Senna” sia i giudici componenti il Tribunale rivoluzionario, assassini quanto i primi, anzi facenti parte di essi, in quanto erano “le stesse persone, distinte appena da un mantello nero e da un cappello piumato”.
Quando tali giudici, continua Lenotre, affermavano: “l’accusato è sotto la spada della giustizia”, essi volevano soltanto dire “lasciatelo stare, ci pensiamo noi ad ammazzarlo”.
I problemi che Satta tenta di risolvere nel suo saggio sono: se gli uni e gli altri sono degli assassini, perché questi, che potrebbero impunemente uccidere con l’azione diretta, uccidono attraverso un processo? Ma questo è un processo? E se è un processo, che cosa è allora l’altro processo, quello al quale pensiamo quando parliamo di giustizia e di diritto? E, in definitiva, cos’è il processo?
Domande, conclude Satta, alle quali forse è impossibile rispondere, ma alle quali una risposta bisogna pur dare, se non vogliamo concludere la nostra vita di studiosi (noi potremmo, più modestamente, dire di “operatori del diritto”) con l’amara impressione di aver perduto il nostro tempo intorno ad un vano fantasma, a un’ombra che abbiamo trattato come una cosa salda.
Noi ovviamente qui non affronteremo tali problemi (che non costituiscono neppure l’oggetto dell’incontro di questa sera), ma ci sembra suggestivo ricordare sia Lenotre, laddove si sofferma sulla scomparsa della “Giustizia” sia Satta, nel punto in cui ragiona di “mistero del processo”.
Il mistero, la domanda alla quale tenteremo di dare una risposta, è la seguente: perché si ha la percezione che in Italia sia “scomparso” il diritto a un processo “giusto” (nel senso di processo che abbia una ragionevole durata)?
Parlare oggi di giustizia penale significa, inevitabilmente, parlare di “ragionevole durata del processo”: il processo penale dura troppo, è inceppato, farraginoso, insomma non funziona, su questo tutti sono d’accordo.
I problemi sorgono non appena la discussione si sposta sul piano della diagnosi del male e sulla conseguente terapia.
Avvocatura e magistratura si scontrano frontalmente: il processo dura troppo perché strangolato da eccessi garantistici o perché la struttura amministrativa è al collasso? E quali sarebbero poi questi eccessi garantistici e questi meccanismi amministrativi inceppati e in quale misura incidono per davvero sulla durata del processo?
Il giurista Francesco Carnelutti (lo stesso che ravvisò nel processo, in quanto tale, la pena), nel lontano anno 1956, scriveva che “(…) gli uomini di governo danno atto periodicamente delle esigenze di una giustizia rapida e sicura ma basterebbe che avessero conoscenza delle strettezze materiali, spesso inconcepibili, nelle quali il servizio si compie per rendersi conto in pratica queste declamazioni non hanno alcuna serietà. Se al servizio giudiziario si dedicassero le cure che si prodigano al servizio ferroviario (e qui noi possiamo sorridere se pensiamo allo stato delle Ferrovie Italiane nel ventunesimo secolo!) o alla circolazione stradale, le cose comincerebbero ad andare diversamente; ma i valori economici contano ancora purtroppo assai più che i valori morali”.
E’ noto che ogni anno, nel corso della celebrazione della cerimonia (che può essere ben definita una “liturgia“) di inaugurazione dell’anno giudiziario, all’autocelebrazione della magistratura si accompagna una rappresentazione mistificatoria dello stato della giustizia, con attribuzione della responsabilità della crisi giudiziaria alle “garanzie” riservate all’imputato.
Viceversa, proprio nei termini evocati da Carnelutti, il processo è un “valore morale” la cui crisi va piuttosto cercata nel costante rapporto negativo con le risorse economiche, umane e politiche e non in una immaginaria e strumentale linea di conflittualità con le garanzie dell’imputato.
Se è vero (art. 6 comma 1 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo) che “ogni persona ha diritto a che la sua causa sia esaminata equamente e pubblicamente ed entro un termine ragionevole (…)”, ciò significa che la ragionevole durata del processo è un criterio che governa la legalità dei mezzi e non può mai essere usato contro l’imputato ed a scapito delle sue garanzie.
E ciò perché anche la ragionevole durata è una garanzia per l’imputato e non può essere solo un fine per il processo (ammesso che si possa dire che il processo, in quanto tale, abbia un fine).
Da una recente indagine svolta dall’Eurispes, in collaborazione con la Camera Penale di Roma e con il contributo della Fondazione Enzo Tortora è emerso, in maniera inoppugnabile (e gli addetti ai lavori sanno che non sarebbe potuto emergere un risultato diverso) che, dati alla mano, le reali cause della lunghezza dei processi, delle disfunzioni anche in sede locale, dei tempi morti della giustizia, delle spese, dei difetti organizzativi non sono da ricercare nel preteso eccesso di garanzie offerte all’imputato (e pertanto al risanamento del sistema non può pervenirsi attraverso populistiche “potature” di tali garanzie), ma, piuttosto, ciò che danneggia il processo (e lo lascia senza difese) sono le semplici prassi giudiziarie. Il processo penale, in altre parole, è paralizzato dalla catastrofica condizione della struttura amministrativa deputata a gestirlo.
Le garanzie processuali non svolgono, obiettivamente, alcuna influenza apprezzabile sui tempi di svolgimento del processo penale.
Oggetto della ricerca.
Lo strumento di indagine, per la sua peculiare tecnicità, ha richiesto che i rilevatori fossero in grado di registrare con precisione e correttezza la dinamica di ciascuno degli oltre 1600 (1632, in cinque diverse giornate di rilevamento) processi monitorati nelle aule del Tribunale di Roma (in composizione monocratica e collegiale), con esclusione delle sezioni distaccate.
Sono stati, dunque, esclusi dal monitoraggio i procedimenti celebrati davanti ai giudici dell’udienza preliminare e davanti alle sezioni della Corte di appello, i procedimenti celebrati con il rito direttissimo e gli incidenti di esecuzione.
Scopo della ricerca è stato quello di ricostruire in termini statistici le diverse ragioni di rinvio incidenti sulla durata media dei processi ordinari, fuori dalle semplificazioni dovute alla scelta di riti alternativi celebrati prima del rinvio a giudizio, nonché all’adozione del rito direttissimo da parte del PM procedente.
Nessuna analoga ricerca sembra sia stata svolta prima.
L’ampiezza del campione, la sua dettagliata precisione ed il fatto che esso sia stato raccolto nel più grande Tribunale italiano, conferiscono ai risultati della ricerca un’attendibilità e una forza illustrativa del fenomeno di valore certamente generale.
GUIDA ALLA LETTURA DEI DATI
I dati raccolti si riferiscono in modo esclusivo alle udienze dibattimentali che ordinariamente si svolgono avanti le sezioni monocratiche e collegiali del Tribunale di Roma.
La ricerca ha per oggetto lo svolgimento e l’esito dei processi ordinari che si svolgono nella fase dibattimentale di primo grado.
I dati seguono lo sviluppo logico e cronologico del processo, preceduto da una distinzione a monte che indica l’esito dell’udienza considerata.
Se l’esito è decisorio (sentenza), i dati forniscono precisazioni sulla natura della decisione (assoluzione, condanna, estinzione del reato e – all’interno di quest’ultima – la ragione dell’estinzione: remissione di querela, prescrizione, oblazione).
Se l’udienza si conclude con un rinvio – sia esso effettuato in via preliminare oppure all’esito di una trattazione incompleta rispetto a quanto programmato – i dati si diffondono nella descrizione delle ragioni dei rinvii (ciò che costituisce l’obiettivo primario dell’indagine).
La lettura delle tabelle è univoca.
I processi arrivano al dibattimento già invecchiati nella fase delle indagini (anche in relazione a imputazioni banalissime, oggetto di indagini puramente routinarie) e, quando inizia finalmente il dibattimento, deve passare attraverso l’imbuto di adempimenti che la macchina amministrativa, semplicemente, non riesce ad organizzare con standard di efficienza minimamente decenti.
E’ impressionante constatare quanti processi vengano rinviati perché è stata omessa la citazione dei testimoni o è fallita la loro citazione per banali quanto sistematici inceppamenti (indirizzi sbagliati, cartoline postali che non ritornano, notifiche intempestive) e quanti altri perché i testimoni, regolarmente citati, semplicemente non compaiono, tradendo così la diffusa percezione da parte dei cittadini, di una scarsa autorevolezza di quell’intimazione dell’Autorità giudiziaria (e come dar loro torto quando poi accade che i testimoni, regolarmente comparsi, si vedono rimandati a una nuova udienza e poi magari a un’altra ancora, dopo aver trascorso inutilmente ore ed ore davanti alla porta dell’aula)?
Colpisce constatare quanto alto sia il numero dei rinvii dovuti alla assenza del Giudice (o dei Giudici); e quanti siano dovuti al carico abnorme dei ruoli, che rende pressoché impossibile rispettare il programma della giornata.
Le cause reali.
ESITO DEI PROCESSI
Come detto sopra, anzitutto l’indagine ha inteso rilevare quale sia, mediamente, l’esito dei processi penali celebrati nelle aule del Tribunale di Roma: quali si concludano con sentenza (assoluzione, condanna o estinzione del reato), quali con restituzione degli atti al PM per ragioni di nullità processuali, quali infine con rinvio ad altra udienza (sia all’esito di una parziale trattazione sia senza lo svolgimento di alcuna attività istruttoria).
Nel 69,7% dei casi, l’esito è il rinvio ad altra udienza. Nel 28,6% l’esito è la sentenza. Nell’1,7% la restituzione degli atti al PM.
1) RAGIONE DELLA RESTITUZIONE DEGLI ATTI AL PM
Nel 63% dei casi, per nullità della citazione diretta a giudizio (non è prevista l’udienza preliminare). Nel 7,4% per nullità del decreto che dispone il giudizio. Dunque, oltre il 70% dei casi di restituzione è determinata da una delle nullità, previste nel codice, dell’atto introduttivo del giudizio dibattimentale.
Le altre ragioni di restituzione degli atti al PM (indeterminatezza dell’imputazione, incertezza individuazione imputato, omessa indicazione giorno ora o luogo di comparizione, omesso avvertimento della facoltà di richiedere riti alternativi) assumono un peso pressoché irrilevante.
Da quanto sopra, emerge la modestissima incidenza delle declaratorie di nullità del decreto che dispone il giudizio e della citazione diretta a giudizio sulla ragionevole durata del processo (il 70% dell’1,7%, vale a dire circa l’1% dei processi fissati per il dibattimento).
Eppure, nel dibattito e nella polemica sulla ragionevole durata del processo si tende ad individuare in alcune di queste norme di garanzia un terreno di intervento privilegiato per una riforma efficiente del processo penale.
Il dato qui rilevato smentisce la necessità di un intervento su queste previsioni di nullità degli atti processuali (poste a salvaguardia dei diritti processuali dell’imputato).
2) I PROCEDIMENTI CHE SI CONCLUDONO CON L’EMANAZIONE DI UNA SENTENZA
Essi ammontano al 28,6% del totale dei processi trattati.
Di questo 28,6%:
Il 51,4% delle sentenze sono di condanna, il 23,1% di assoluzione e il 21,2% sanciscono l’estinzione del reato.
Si ricorda che si tratta di dati relativi alla sola fase dibattimentale, per cui tali dati debbono aggiungersi alle decisioni di analogo tenore assunte nelle fasi precedenti al dibattimento (per l’ipotesi della condanna a quelle inflitte dal GUP in sede di riti alternativi; per le assoluzioni, alle decisoni analoghe assunte nelle fasi procedimentali precedenti).
Non si è approfondito l’esame di tali dati, in quanto esulava dall’oggetto della ricerca (vale a dire la durata del processo penale).
Il terzo esito decisorio possibile è la sentenza dichiarativa di non luogo a procedere per intervenuta estinzione del reato (21,2% dei processi trattati).
Di questo 21,2%:
Per il 63% dei casi il motivo è la prescrizione; per il 14,1% la remissione di querela; per il 4% l’oblazione.
3) IL RINVIO DEI PROCESSI
Nel 69,7% dei casi, come visto sopra, l’esito del processo è il rinvio ad altra udienza.
Va precisato che in tale percentuale sono stati computati sia i processi rinviati per ragioni “genericamente patologiche” (carico del ruolo, errori o omissioni nelle notifiche, assenza dei testi, assenza del giudice o del pubblico ministero, impedimento del difensore o dell’imputato) sia quelli differiti per la prosecuzione dell’istruttoria, dopo aver regolarmente svolto l’attività prevista per quella udienza.
I RINVII NELLA FASE PRELIMINARE DELL’UDIENZA
Il legittimo impedimento dell’imputato (nella maggior parte dei casi dovuto all’esibizione di un certificato medico attestante una condizione di salute che non gli consente di partecipare all’udienza) determina il rinvio del solo 2% dei processi.
Di poco superiore (3%) i rinvii dovuti a legittimo impedimento del difensore (va ricordato che le cause che rendono legittimo l’impedimento del difensore sono rigorosamente regolate dal codice di procedura penale e dall’interpretazione giurisprudenziale): a esempio, il contestuale impegno del difensore in altro procedimento, purché l’altro impegno risulti stabilito prima della fissazione dell’udienza in questione oppure che riguardi detenuti; che tale impegno sia stato comunicato al giudice tempestivamente; che sia dimostrato che il difensore non possa avvalersi di sostituti in grado di svolgere la difesa in sua vece ecc.
I rinvii per esigenze difensive (determinati da necessità processuali contingenti: incarichi difensivi conferiti solo poche ore prima dell’udienza, scarsa diligenza nella preparazione dell’udienza da parte del difensore), che il difensore rappresenta al giudice e questi ritiene di accogliere: 3,2%
Processi rinviati per ragioni logistico-organizzative 1,8%. Indisponibilità dell’aula, del trascrittore, assenza interprete di lingua straniera, mancanza del fascicolo del PM e in certi casi di quello del dibattimento.
Rinvio per carico del ruolo 2%. Rinvii originariamente non prevedibili (processo regolarmente fissato nel ruolo), il processo potrebbe essere regolarmente trattato ma lo sviluppo dell’udienza (istruttorie di altri processi che si prolungano, contrattempi vari, discussioni impegnative) determinano il rinvio ad altra udienza di uno o più procedimenti sul ruolo.
Molto alto è il dato dei processi rinviati per assenza del giudice titolare: ben il 9,2 %.
Va detto che il valore così elevato è dovuto all’ovvia considerazione che l’impedimento (quale ne sia la ragione) del giudice, determina il rinvio di tutti i processi fissati per quell’udienza.
Tuttavia, il dato resta comunque significativo.
Rinvii per questioni processuali (astensione o incompatibilità o incompetenza del giudice, riunione ad altro procedimento penale): 3,2%
Sintomatici delle reali patologie del processo penale sono i dati relativi ai rinvii (sempre rimanendo all’interno della fase preliminare dell’udienza, in particolare quella relativa alla corretta costituzione del rapporto processuale) determinati da irregolarità (ricomprendendo in essa: omissione, erroneità, tardività) delle notifiche all’imputato, alla persona offesa e al difensore.
Il 7,8% dei processi viene rinviato per irregolarità della notifica all’imputato.
Il 2% per irregolarità della notifica alla persona offesa (il minor dato si spiega in ragione del fatto che non tutti i reati presuppongono l’esistenza di una persona offesa dal reato).
Il 3,6% per irregolarità della notifica al difensore (è un dato assai rilevante, se si riflette sulla circostanza che la notifica, in tale caso, dovrebbe essere difficilmente fallibile, dovendo essere eseguita presso lo studio del difensore (in linea prevalente nella medesima città in cui si celebra il processo) e soprattutto presso un domicilio ufficialmente registrato nell’Albo degli avvocati tenuto e aggiornato dal Consiglio dell’Ordine di appartenenza e dunque agevolmente reperibile.
Questo dato fa riflettere sull’illusoria efficacia di certe scorciatoie riformatrici, che vorrebbero, per risolvere i problemi della notifica all’imputato, utilizzare a quel fine il domicilio del difensore.
Sommando i relativi dati, emerge che sin dalla fase preliminare dell’udienza, il 34,9% dei processi viene rinviato per legittimo impedimento imputato e difensore, assenza giudice titolare, problemi logistico organizzativi, irregolarità notifiche a imputato, persona offesa e difensore, carico del ruolo, incompetenza, incompatibilità, astensione, riunione ad altro procedimento.
Se a questo dato si aggiunge il precedente relativo ai rinvii per restituzione degli atti al pm (1,7%), si scopre che il 36,6% dei processi penali viene rinviato ad altra udienza o ad altra fase procedimentale o a udienza da definirsi già nella fase preliminare dell’udienza stessa.
A tale dato possono aggiungersi i rinvii dei processi in prima udienza per sola ammissione delle prove, che ammontano al 20% del totale.
Deve precisarsi che tali rinvii derivano da un accordo tra l’avvocatura e la Presidenza del Tribunale di Roma (come accade nella gran parte dei Fori italiani) per cui le prime udienze dibattimentali sono destinate alla eventuale formulazione di questioni preliminari e alle richieste di prova avanzate dalle parti, dopo aver deciso le quali il giudice rinvia a successiva udienza per l’inizio dell’istruttoria dibattimentale.
E’ il sistema delle c.dd. “udienze filtro”, peraltro indispensabile se si vuole garantire un minimo di qualità e ordine nella trattazione del processo.
Se, in conclusione, si considerano anche questi ultimi rinvii, oltre la metà dei procedimenti penali fissati per il dibattimento ordinario avanti le aule del Tribunale di Roma vengono rinviati ad altra udienza (se non addirittura ad altra fase procedimentale) e solo una parte minore di questi (il 20%) dopo aver per lo meno trattato e risolto le questioni preliminari e la fase dell’ammissione della prova.
I RINVII DEI PROCESSI FISSATI PER L’ISTRUTTORIA DIBATTIMENTALE
Il 9,6% dei processi fissati per l’istruttoria dibattimentale vengono rinviati ad altra udienza senza lo svolgimento di alcuna attività per irregolare (omessa, erronea) citazione dei testi del PM.
Impressionante è il dato relativo ai rinvii per assenza dei testi citati dal PM (28,9%).
Dato, quest’ultimo, rilevante soprattutto dal punto di vista sociologico, perché denota una debolissima capacità persuasiva, nei confronti del cittadino, di un’intimazione a comparire in udienza per rendere esame testimoniale.
Indifferenza del cittadino di fronte all’autorità giudiziaria. Solo in rari casi il giudice ha applicato la sanzione della condanna al pagamento di somma in favore della Cassa delle ammende e in misura ancora minore ha disposto l’accompagnamento coattivo.
Irrilevante (0,8%) la percentuale di rinvii per irregolare citazione dei testi della difesa, mentre e comunque contenuta (3,3%) quella dei rinvii per assenza dei testi citati dalla difesa.
Questo dato, rapportato a quello relativo all’irregolarità della citazione dei testi del PM, fa riflettere sul fatto che l’anomalia funzionale sia nella struttura istituzionalmente deputata ad effettuare le notifiche (l’ufficio unico notifiche atti giudiziari), posto che il difensore di norma non si avvale di questo ufficio, ma vi provvede a mezzo posta o mediante convocazioni dirette.
Il dato clamoroso che emerge è che ben il 42,6% dei processi fissati per lo svolgimento dell’istruttoria dibattimentale viene rinviato senza svolgimento di alcuna attività perché il banale atto della citazione del testimone o è stato del tutto omesso oppure è stato effettuato in modo errato oppure, pur essendo stato regolarmente effettuato, non è stato ottemperato dal destinatario.
I rinvii per prosecuzione della istruttoria incidono per il 30,9% (si tratta di quei processi nei quali viene integralmente effettuata l’istruttoria programmata e che vengono rinviati ad altra udienza per la fisiologica prosecuzione dell’istruttoria che ancora dovrà svolgersi.
A tale dato può sommarsi quello, omogeneo, dei rinvii per integrazione della prova a fini processuali (12,40%): si tratta di rinvii disposti dal giudice a conclusione della istruttoria, istruttoria che il giudice ritiene di dover integrare con ulteriori atti istruttori (esami di nuovi testimoni, confronti, conferimento di perizie, acquisizione di documentazione).
Rinvii per la sola discussione (5,7%) e per repliche (0,2%).
Avv. Antonio Salvatore