mercoledì 28 aprile 2010

L'esperienza della malattia nella letteratura

Intervento dell'Avv. Antonio Salvatore in occasione della presentazione dell'edizione italiana del volume di Douglas Firth “Il caso di Augusto D'Este”, tenutosi in Ferrara presso la Sala Arengo in data 30 aprile 2010


L'occasione dell'intervento – più acconcio sarebbe l'epiteto “riflessione” - sorge dalla presentazione dalla raffinata edizione italiana (anno 2009) del raro volume The Case of Augustus d'Este, pubblicato nel 1948 dal medico inglese Douglas Firth, che sottrasse alla profanazione del tempo, dei topi e dei ladri lettere diari e manoscritti composti, tra il 1793 e il 1847,da Lady Augusta d'Ameland e dal figlio di costei, Sir Augusto d'Este, discendente, come suggerisce il cognome, dell'omonima Casa.
Vi è contenuta la minuziosa, a volte impietosa, descrizione della malattia dalla quale venne colpito Sir Augusto d'Este (n. 1794 – m. 1848), la sclerosi multipla.
Siamo al cospetto di quel genere letterario, l'”autopatografia”, la narrazione-cronaca personale dell'esperienza della malattia da parte della stessa persona che ne è afflitta, in cui il più delle volte – si pensi a Italo Svevo o, modernamente, a Tiziano Terzani – l'autopatografo è persona di cultura, molto spesso uno scrittore. Quel che è certo è che, come osservato dal Prof. Enrico Granieri nell'introduzione al volume che oggi viene presentato, tale genere letterario “riveste notevole importanza da un punto di vista strettamente storico e medico per la ricapitolazione in un determinato periodo dei progressi diagnostici e terapeutici attraverso l'osservazione dei dati anamnestici delle cure eseguite”.
Ma notevole importanza riveste anche in capo più strettamente letterario se è vero, per dirla con Susan Sontag, la scrittrice statunitense deceduta nel 2004 per leucemia, che la malattia è "il lato notturno della vita".
Thomas Mann, ne “La montagna incantata”, sviluppa il tema del morbo, interrogandosi sui rapporti tra la malattia e la vita e tra l'individuo malato e i sani.
Kafka era ossessionato dal tema della malattia come espressione esterna del proprio malessere interiore, al punto da somatizzare i sintomi del male nell'incomprensione con i familiari; per tutta la vita desiderò essere amato e accettato dalla propria famiglia, sensazione che emerge prepotentemente nel romanzo “La metamorfosi”.
In Pirandello predomina il tema della follia del disagio psicologico, delle fissazioni monomaniacali, in tutte le possibili forme e deviazioni: egli rappresenta il malessere psicologico dell'uomo di fronte al perbenismo borghese dell'epoca, ciò che lo rende attuale.
In Proust il malato è forzatamente isolato dal resto della comunità, la malattia è un fattore discriminante che allontana il malato dal centro della scena, dal contesto sociale.
Per Sartre la malattia è disgusto, nausea, in grado di distruggere "ab imis" le fondamenta della società. Nausea della vita, perdita di ogni motivazione, l'uomo è annullato di fronte all'irrazionalità delle comuni espressioni del vivere sociale. Famiglia, lavoro, carriera, memoria, dolore e la stessa morte si trasfigurano in elementi confusi di un caravanserraglio irrazionale, illogico, incomprensibile e inaccettabile.
Albert Camus riprende con coraggio il tema antico della peste e lo situa in contesto moderno: la malattia diventa il sintomo della guerra che sta distruggendo il mondo, la peste diviene lo spunto per analizzare l'isolamento, la morte, il dolore, la separazione dalla famiglie, la necessità di scegliere tra l'impegno e la sopravvivenza, l'allontanamento e l'esilio.
In Svevo la malattia è immaginata con estrema lucidità, è più forte della vita al punto di prenderne il posto.
Per Gadda (ne “La cognizione del dolore”), la malattia è sentimento di frustrazione, senso diffuso e paralizzante di depressione.
Tobino si colloca nella prospettiva del medico, la figura romantica del medico-missionario rinchiuso con "i matti" (come affettuosamente, senza ricorrere a metafore, amava definirli) in manicomio, in una lunga transizione che conduce a un mondo senza manicomi.
Nel “Memoriale” di Paolo Volponi, il malessere scaturisce dal conflitto tra natura e civiltà della macchine.

Metafora e malattia.
In questo intervento si vuole rispondere all'interrogativo se possiamo fare a meno delle metafore, nella vita quotidiana e nella letteratura.
Nel definire la malattia (“il lato notturno della vita”), la Sontag come abbiamo visto fa uso di una metafora, e non a caso, proprio perché, probabilmente, la metafora è la maniera più interessante di trattare il tema della malattia, molto più del mero uso del morbo, dell'affezione come sfondo della vicenda narrata (come avviene ne “I Promessi Sposi”, ove la peste che colpisce l'intera comunità viene usata come fondale per scene corali così drammatiche da essere passate alla storia) o, come nel caso di Augusto d'Este, come mera testimonianza medico-scientifica.
Benché nata come figura retorica la metafora (dal greco: “trasferire”), è stata da sempre utilizzata nel linguaggio comune. La ragione di ciò – osserva Cicerone nel “De oratore” - è da ricercare nel fatto che il traslato, “nato dalla necessità, sotto la spinta del bisogno e della povertà linguistica, si è diffuso largamente per via del piacere e del godimento che sono insiti in esso”, come è avvenuto “per il vestito che fu inventato dapprima per difendere dal freddo e che poi cominciò ad adoperare anche come ornamento e decoro del corpo”.
Nel caso della malattia, pare che siamo rimasti fermi alla funzione “difensiva”, di “protezione”, per allontanare da noi (o nell'illusione di allontanare) l'angoscia proveniente dal pensiero morte.
Quante volte abbiamo sentito l'espressione: “ha perduto la sua battaglia contro il cancro”; “l'invasione delle società ad opera dell'AIDS o del cancro”; “le armi a disposizione della scienza nella lotta all'AIDS o al cancro”; “la moderna scienza medica che dichiara guerra al cancro o all'AIDS”?
La malattia e la morte di un essere umano, in definitiva, vengono esposte nei termini di un impegno e una sconfitta militare.
Per restare in ambito letterario, ricordiamo che ne “La morte a Venezia” di Mann, il colera esprime metaforicamente la corruzione morale del protagonista, Gustav Von Aschenbach. Mentre costui si abbandona gradualmente al piacere decadente che prova nello spiare un ragazzo polacco, il colera si impadronisce del suo corpo. Una dolce corruzione lo distrugge moralmente, così come il colera – che ha devastato l'Europa – contamina e distrugge il suo corpo. Nelle strade di Venezia, Aschenbach cede alla tentazione di consumare alcune fragole, dolci e troppo mature, che gli trasmettono il colera e alla fine, mentre contempla sulla spiaggia Tadzio, Aschenbach muore, nella segreta estasi della decadenza, della mollezza e della vergogna.
Esteriormente la sua dignità pubblica rimane intatta, ma interiormente egli ha ceduto.
In definitiva, la metafora, nella vita o in letteratura, ci mette fuori strada o ci aiuta a comprendere il fenomeno della malattia?
Vogliamo dire che l'atto di scrivere – già di per sé, per molti autori, espressione di malattia – quando si tratta di narrare la malattia (o la morte), attraverso l'utilizzo della metafora, si colora e si carica di un valore simbolico, diviene metafora di altri significati, che rimandano gli uni agli altri.
Malattia intesa come morbo psicologico, follia, malessere collettivo, disagio morale, incapacità di adattamento, solitudine, noia, malinconia, in senso fisico. Tutti concetti che assumono, in letteratura, valori simbolici.
E si sa che il simbolo possiede una duplice natura, giacché, nel momento stesso che rivela, nasconde.
E ci piace ricordare un'altra funzione della metafora, quella di esprimere un concetto in maniera più efficace, più “forte”, come amava ricordare Borges.
E' certo un fatto che la malattia, al pari della morte (che spesso annuncia), costituisce un (e forse il) "topos" letterario per eccellenza.
In tutte le mitologie dei popoli antichi, la malattia viene interpretata come segno divino, punizione inflitta all'uomo singolo o alla collettività, come castigo per le colpe commesse: si pensi alla peste, alla tisi, all'AIDS.
Nessuno oggi (anche se da qualche parte si è letto) seriamente sottoscriverebbe l'esistenza di un nesso tra malattia e corruzione morale: tale nesso è una metafora, non un concetto.
Ma le metafore, come i simboli, sono “potenti”, affondano le loro radici in profondità, molto più dei concetti razionali.
Possono condizionare il modo con cui vediamo il mondo.
E appare significativo che la stessa Sontag (“Illness as Metaphor”, 1978 e dieci anni dopo “AIDS as Metaphor”, 1989), nel delineare la propria visione oscura, ctonia, della metafora e nella sua ferma intenzione di demistificare la malattia da cui era stata colpita e della quale sarebbe morta (leucemia), rifiutando di attribuirle significati, asserendo che la malattia deve essere vista con lucidità per quello che è, non come simbolo di qualcos'altro (“la polmonite non è che polmonite”), ricorre come abbiamo visto a una metafora (“la malattia è il lato notturno della vita”): concetto ctonio quanto terribile.
Forse delle metafore, come dei simboli, non possiamo proprio fare a meno.
Avv. Antonio Salvatore