mercoledì 25 marzo 2009

LE RONDE: LE RAGIONI DEL NO

Prima di affrontare il tema del presente intervento, che rientra nel più ampio dibattito - particolarmente acceso in questi ultimi tempi (meno per ragioni “nobili” che meramente elettorali) - della “sicurezza”, appare necessario prendere le mosse dai dati ufficiali diffusi dal Ministero dell'Interno, che danno conto di una costante e progressiva diminuzione del fenomeno criminale, sin dal secondo trimestre dell'anno 2007.
Nell'anno 2008, gli omicidi volontari sono al minimo storico, i furti sono diminuiti del 39,72% rispetto all'anno precedente, le rapine del 28,8%, l'usura del 10,4%, la ricettazione del 31,6%, il riciclaggio del 5,8%, le minacce del 22,1%.
Gli stessi dati ci dicono che anche i reati di violenza sessuale sono diminuiti dell'8,4% e che la maggior parte degli “stupri” si consuma entro le mura domestiche: i dati relativi all'anno 2007 ci dicono che il 69,70% è opera di partner, il 17,4% di un conoscente e solo il 6,2% è opera di estranei.
Da tali dati emerge, dunque, come la sicurezza delle persone sia oggi maggiormente assicurata rispetto al passato e che se un bisogno di sicurezza emerge, esso sta nell'assicurare, per restare nel campo della violenza sessuale, la tutela delle donne dalle offese delle persone a loro più vicine.
Ancora, per venire alla nostra Regione, secondo il sesto rapporto CNEL denominato “Indici di integrazione degli immigrati in Italia”, con il 4,3%, l'Emilia Romagna è sesta in Italia per percentuale di stranieri denunciati penalmente nell'anno 2005 sul totale dei soggiornanti, in linea con la media nazionale. Dallo stesso rapporto emerge come il Nord Italia (dove, va ricordato, risiede il 60% degli immigrati che vivono in Italia), nel suo insieme, è l'unica area in cui i livelli di questo fenomeno sono complessivamente al di sotto della media nazionale, a dispetto del binomio (meglio sarebbe dire “assioma indimostrato”) “immigrazione-insicurezza”, su cui un'ampia classe politica, proveniente proprio dal Nord Italia, impernia le proprie politiche migratorie.
Nonostante tutto questo, in nome della “sicurezza”, il Governo ha approvato un decreto (il decreto legge 23 febbraio 2009 n. 11) che rischia di agevolare l'istinto dei cittadini a dar sfogo ad insane voglie di ritorsioni, sminuendo l'operato delle forze dell'ordine.
Se i dati del Ministero dell'Interno dicono il vero, le pretese misure sulla sicurezza dei cittadini, talune delle quali avallate dalla stessa opposizione, lungi dal garantire più sicurezza, nascondono soltanto una forte voglia di “ordine pubblico” a tutti i costi.
Le norme varate dal Governo e quelle che ci si appresta a varare sono di tale eccezionalità rispetto al sistema di valori costituzionali da poter trovare giustificazione soltanto in un'altrettanto eccezionale messa a rischio di diritti fondamentali della persona: ma, per le ragioni sopra esposte, così non è e tali interventi non trovano altra giustificazione che quella di veder affermate ragioni ideologiche e di ordine pubblico di triste memoria.
Venendo al tema, desta grave preoccupazione l'art. 6 del decreto n. 11, che legittima gli individui a fare giustizia in proprio “unendosi in associazioni...al fine di segnalare agli organi di polizia locale, ovvero alle Forze di polizia dello Stato, eventi che possano arrecare danno alla sicurezza urbana ovvero situazioni di disagio sociale”, così ponendo pericolose premesse all'intensificarsi di tensioni sociali e fenomeni di intolleranza o peggio ancora di giustizia “di piazza”, recentemente e tristemente tornati all'onore della cronaca.
Le cosiddette “ronde” di cittadini in funzione di sicurezza pubblica sono disciplinate dall'art. 6 del decreto legge n. 11/2009, rubricato “piano straordinario di controllo del territorio”, da attuarsi, per quanto concerne il tema oggetto del presente intervento, attraverso la possibilità, riconosciuta ai sindaci, previa intesa con il prefetto, di avvalersi della collaborazione di associazioni tra cittadini non armati al fine di segnalare alle Forze di polizia dello Stato o locali, eventi che possano arrecare danno alla sicurezza urbana ovvero situazioni di disagio sociale (comma terzo dell'art. 6).
Il comma quinto dell'art. 6 precisa che la scelta, da parte dei sindaci, deve essere effettuata, in via prioritaria, tra le associazioni costituite tra appartenenti, in congedo, alle Forze dell'ordine, alle Forze armate e agli altri Corpi dello Stato, sempre che tali associazioni risultino iscritte nell'elenco tenuto appositamente dal prefetto.
In tale elenco (periodicamente monitorato dal prefetto), le associazioni suddette possono essere iscritte a condizione di non essere “destinatarie a nessun titolo di risorse economiche a carico della finanza pubblica”, a eccezione di quelle costituite tra gli appartenenti, in congedo, alle Forze dell'ordine, alle Forze armate e agli altri Corpi dello Stato. Il prefetto dovrà verificare, in sede di iscrizione, sentito il Comitato provinciale per l'ordine e la sicurezza pubblica, il possesso, da parte dell'associazione, dei requisiti richiesti.
Va segnalata l'estrema (e pericolosa) vaghezza (nel senso di indeterminatezza) delle disposizioni appena menzionate, sia in relazione ai compiti che queste associazioni sono chiamate a svolgere, sia in riferimento alla loro struttura, ai loro requisiti e a quelli dei soggetti alle stesse iscritti.
Non è chiaro, anzitutto, che cosa debba intendersi per “collaborazione” ai sindaci al fine di segnalare “eventi che possano arrecare danno alla sicurezza urbana ovvero situazioni di disagio sociale”.
Ammesso che (l'inedito) concetto di “sicurezza urbana” coincida con quello di “sicurezza pubblica”, concetto, quest'ultimo, più ampio di quello meramente connesso ai reati, proprio con riferimento ai reati, non sembra che, allo stato, sussista un “dovere generale”, in capo al sindaco, di denunciare tutti i reati (di qualunque tipo) commessi nel territorio di competenza. Tale obbligo, attualmente, sussiste solo per i reati di cui il sindaco, quale pubblico ufficiale nell'esercizio delle sue funzioni, venga a conoscenza.
Non si tratta di questione di poco conto, dal momento che attiene alla qualifica da riconoscere agli appartenenti alle associazioni nello svolgimento dei loro compiti: se si tratta, come sembra di capire, di compiti propri del sindaco, che per il loro svolgimento si avvale della collaborazione delle associazioni, allora bisognerà ritenere, ai sensi dell'art. 357 del codice penale, che i componenti delle associazioni, nello svolgimento di tali compiti, siano pubblici ufficiali. E' davvero questo quello che si vuole?
Per quanto riguarda l'espressione “situazioni di disagio sociale”, l'impressione è quella che il legislatore consideri il disagio sociale alla stregua di problema di “ordine pubblico”, da attrarre in un circuito repressivo poliziesco, piuttosto che in quello di prevenzione e ausilio di carattere sociale.
Desta profonda inquietudine, poi – rappresentando il primo passo dello Stato di diritto verso la “privatizzazione della giustizia penale” e dunque verso l'abisso – il fatto che il decreto legge non escluda (e quindi consenta) che i “volontari per la sicurezza” possano essere finanziati da privati, sia persone fisiche che giuridiche.
Nulla il decreto dice in merito ai requisiti che gli eventuali finanziatori delle associazioni dovrebbero possedere.
Di requisiti, infatti, si parla solo in relazione agli associati (essere immuni da precedenti penali, dall'applicazione di misure di prevenzione e da carichi pendenti e, se quest'ultima interpretazione è esatta, non dotati di licenza di porto d'arma, come si ricava dal fatto che le associazioni devono essere costituite “tra cittadini non armati”).
Come è stato efficacemente rilevato (Vladimiro Polchi, La Repubblica del 26 febbraio 2009), il rischio è quello di uno “squadrismo” pagato da quella parte della popolazione che non si sente sufficientemente protetta, istituzionalizzando un rapporto mafioso del tipo: “io ti proteggo, tu mi paghi”.
A quest'ultimo proposito, il delegato del Cocer (il “sindacato” dei Carabinieri), Alessandro Rumore, ha rimarcato come in molte Regioni italiane molti Comuni siano infiltrati dalla criminalità mafiosa e affidando ai sindaci “in odor di mafia” i poteri di gestire le ronde si rischierebbe che i volontari siano gestiti da coloro che, in teoria, dovrebbero contribuire a combattere.
A “bocciare” il sistema delineato nel decreto legge, infatti, sono anche i sindacati delle forze di polizia.
Il Cocer ha definito tale sistema “impraticabile” e ha ricordato come i recenti scontri tra “no-global” e volontari delle ronde abbiano imposto alle forze dell'ordine, intervenute per sedare i tafferugli, un dispendioso lavoro, distogliendole dai loro compiti di sicurezza giornalieri.
Secondo il Cocer, “ i Carabinieri producono il 55% dell'attività operativa rispetto a tutte le altre forze di polizia”, e lo stesso Cocer si è opposto, con fermezza, all'istituzione di ronde di vigilanza composte da cittadini”, sottolineando come la sicurezza non sia da perseguire con le ronde, ma debba fondarsi su due pilastri fondamentali: “l'incremento delle risorse economiche da destinare alle Forze dell'ordine (ricordando che alla polizia e ai carabinieri mancano oltre diecimila uomini) e la costruzioni di nuovi istituti di pena, al fine di scongiurare il rischio di un nuovo indulto”.
Anche il locale rappresentante del Siulp (il sindacato della Polizia di Stato), Mauro De Marchi, ha dichiarato (cfr. il Resto del Carlino, 12 marzo 2009) che “l'istituzione delle ronde è la cosa più inutile, pericolosa e dannosa che potessero fare. Coinvolgere ex appartenenti alle forze dell'ordine significa coinvolgere persone avanti con l'età, con una reattività e una sensibilità diverse rispetto a chi è addestrato. Viceversa, coinvolgere i giovani significa esporsi al rischio che l'inesperienza e l'eccesso di impulsività possano essere più dannosi che utili. Sarebbe più utile una riorganizzazione delle diverse forze dell'ordine”.
Ad avviso di chi scrive, l'istituzione delle “ronde” altro non è che l'indice dell'incapacità dello Stato di garantire sicurezza ai cittadini.
Occorrerebbe incrementare le risorse da destinare alle Forze di polizia e promuovere intese tra i Comuni e tali forze, onde organizzare presidi nei “punti caldi” del territorio di competenza e, in generale, attività di controllo di tale territorio.
Avv. Antonio Salvatore