mercoledì 4 febbraio 2009

"LIBERTA' E GIUSTIZIA"

Relazione tenuta dall’Avv. Antonio Salvatore presso il Lions Club Ferrara Ercole I d'Este

L’Accademico di Francia e storico della rivoluzione, G. Lenotre, nell’opera “Le Tribunal Révolutionnaire” (Parigi, 1908), nel capitolo dedicato alla “Maison de Justice”, narra d’un passante che, nella capitale francese, domanda a due parigini in quale luogo si trovi “le Palais de Justice”.
Al che, uno dei due risponde: - caro signore, la Giustizia, qui, non possiede nessun palazzo, probabilmente Lei intende “la maison où l’on condamne”.
L’Autore, a questo punto, aggiunge che a Parigi, durante la rivoluzione, l’antica dimora del Parlamento aveva perduto il vecchio, rassicurante, nome di “Palais de Justice”, che sembrerebbe evocare una “dama d’alto rango”, per assumere, nel 1793, quello, più scarno, di “Tribunale”: il termine “Giustizia” scomparve, rimase solo la “maison”, nel senso di edificio, dal momento che anche il “palazzo” non esisteva più.
L’opera di Lenotre venne citata, nell’anno 1949, da un processualista italiano, Satta, in una conferenza tenuta presso l’Università di Catania, poi pubblicata in forma di saggio col titolo “Il mistero del processo” (ripubblicato dall’editore Adelphi nell’anno 1994).
Per inciso, va ricordato che a tale saggio attinse l’Avv. Giuliano Spazzali per costruire la propria arringa in occasione del processo che vedeva imputato Sergio Cusani, ravvisando un parallelismo tra gli anni bui della rivoluzione francese e la situazione che si era venuta a creare in occasione di quella che è stata comunemente definita “Tangentopoli”.
Satta cita il passo dell’opera di Lenotre – quello riguardante il cambiamento del nome, da “Palais de Justice” a “Casa dove si condanna” – per sottolineare come, nello spirito popolare, durante gli anni della rivoluzione, assassini si potevano definire sia gli appartenenti “alla folla imbestialita che emergeva dai bassifondi per riversarsi sui ponti della Senna” sia i giudici componenti il Tribunale rivoluzionario, assassini quanto i primi, anzi facenti parte di essi, in quanto erano “le stesse persone, distinte appena da un mantello nero e da un cappello piumato”.
Quando tali giudici, continua Lenotre, affermavano: “l’accusato è sotto la spada della giustizia”, essi volevano soltanto dire “lasciatelo stare, ci pensiamo noi ad ammazzarlo”.
I problemi che Satta tenta di risolvere nel suo saggio sono: se gli uni e gli altri sono degli assassini, perché questi, che potrebbero impunemente uccidere con l’azione diretta, uccidono attraverso un processo? Ma questo è un processo? E se è un processo, che cosa è allora l’altro processo, quello al quale pensiamo quando parliamo di giustizia e di diritto? E, in definitiva, cos’è il processo?
Domande, conclude Satta, alle quali forse è impossibile rispondere, ma alle quali una risposta bisogna pur dare, se non vogliamo concludere la nostra vita di studiosi (noi potremmo, più modestamente, dire di “operatori del diritto”) con l’amara impressione di aver perduto il nostro tempo intorno ad un vano fantasma, a un’ombra che abbiamo trattato come una cosa salda.
Noi ovviamente qui non affronteremo tali problemi (che non costituiscono neppure l’oggetto dell’incontro di questa sera), ma ci sembra suggestivo ricordare sia Lenotre, laddove si sofferma sulla scomparsa della “Giustizia” sia Satta, nel punto in cui ragiona di “mistero del processo”.
Il mistero, la domanda alla quale tenteremo di dare una risposta, è la seguente: perché si ha la percezione che in Italia sia “scomparso” il diritto a un processo “giusto” (nel senso di processo che abbia una ragionevole durata)?
Parlare oggi di giustizia penale significa, inevitabilmente, parlare di “ragionevole durata del processo”: il processo penale dura troppo, è inceppato, farraginoso, insomma non funziona, su questo tutti sono d’accordo.
I problemi sorgono non appena la discussione si sposta sul piano della diagnosi del male e sulla conseguente terapia.
Avvocatura e magistratura si scontrano frontalmente: il processo dura troppo perché strangolato da eccessi garantistici o perché la struttura amministrativa è al collasso? E quali sarebbero poi questi eccessi garantistici e questi meccanismi amministrativi inceppati e in quale misura incidono per davvero sulla durata del processo?
Il giurista Francesco Carnelutti (lo stesso che ravvisò nel processo, in quanto tale, la pena), nel lontano anno 1956, scriveva che “(…) gli uomini di governo danno atto periodicamente delle esigenze di una giustizia rapida e sicura ma basterebbe che avessero conoscenza delle strettezze materiali, spesso inconcepibili, nelle quali il servizio si compie per rendersi conto in pratica queste declamazioni non hanno alcuna serietà. Se al servizio giudiziario si dedicassero le cure che si prodigano al servizio ferroviario (e qui noi possiamo sorridere se pensiamo allo stato delle Ferrovie Italiane nel ventunesimo secolo!) o alla circolazione stradale, le cose comincerebbero ad andare diversamente; ma i valori economici contano ancora purtroppo assai più che i valori morali”.
E’ noto che ogni anno, nel corso della celebrazione della cerimonia (che può essere ben definita una “liturgia“) di inaugurazione dell’anno giudiziario, all’autocelebrazione della magistratura si accompagna una rappresentazione mistificatoria dello stato della giustizia, con attribuzione della responsabilità della crisi giudiziaria alle “garanzie” riservate all’imputato.
Viceversa, proprio nei termini evocati da Carnelutti, il processo è un “valore morale” la cui crisi va piuttosto cercata nel costante rapporto negativo con le risorse economiche, umane e politiche e non in una immaginaria e strumentale linea di conflittualità con le garanzie dell’imputato.
Se è vero (art. 6 comma 1 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo) che “ogni persona ha diritto a che la sua causa sia esaminata equamente e pubblicamente ed entro un termine ragionevole (…)”, ciò significa che la ragionevole durata del processo è un criterio che governa la legalità dei mezzi e non può mai essere usato contro l’imputato ed a scapito delle sue garanzie.
E ciò perché anche la ragionevole durata è una garanzia per l’imputato e non può essere solo un fine per il processo (ammesso che si possa dire che il processo, in quanto tale, abbia un fine).
Da una recente indagine svolta dall’Eurispes, in collaborazione con la Camera Penale di Roma e con il contributo della Fondazione Enzo Tortora è emerso, in maniera inoppugnabile (e gli addetti ai lavori sanno che non sarebbe potuto emergere un risultato diverso) che, dati alla mano, le reali cause della lunghezza dei processi, delle disfunzioni anche in sede locale, dei tempi morti della giustizia, delle spese, dei difetti organizzativi non sono da ricercare nel preteso eccesso di garanzie offerte all’imputato (e pertanto al risanamento del sistema non può pervenirsi attraverso populistiche “potature” di tali garanzie), ma, piuttosto, ciò che danneggia il processo (e lo lascia senza difese) sono le semplici prassi giudiziarie. Il processo penale, in altre parole, è paralizzato dalla catastrofica condizione della struttura amministrativa deputata a gestirlo.
Le garanzie processuali non svolgono, obiettivamente, alcuna influenza apprezzabile sui tempi di svolgimento del processo penale.
Oggetto della ricerca.
Lo strumento di indagine, per la sua peculiare tecnicità, ha richiesto che i rilevatori fossero in grado di registrare con precisione e correttezza la dinamica di ciascuno degli oltre 1600 (1632, in cinque diverse giornate di rilevamento) processi monitorati nelle aule del Tribunale di Roma (in composizione monocratica e collegiale), con esclusione delle sezioni distaccate.
Sono stati, dunque, esclusi dal monitoraggio i procedimenti celebrati davanti ai giudici dell’udienza preliminare e davanti alle sezioni della Corte di appello, i procedimenti celebrati con il rito direttissimo e gli incidenti di esecuzione.
Scopo della ricerca è stato quello di ricostruire in termini statistici le diverse ragioni di rinvio incidenti sulla durata media dei processi ordinari, fuori dalle semplificazioni dovute alla scelta di riti alternativi celebrati prima del rinvio a giudizio, nonché all’adozione del rito direttissimo da parte del PM procedente.
Nessuna analoga ricerca sembra sia stata svolta prima.
L’ampiezza del campione, la sua dettagliata precisione ed il fatto che esso sia stato raccolto nel più grande Tribunale italiano, conferiscono ai risultati della ricerca un’attendibilità e una forza illustrativa del fenomeno di valore certamente generale.
GUIDA ALLA LETTURA DEI DATI
I dati raccolti si riferiscono in modo esclusivo alle udienze dibattimentali che ordinariamente si svolgono avanti le sezioni monocratiche e collegiali del Tribunale di Roma.
La ricerca ha per oggetto lo svolgimento e l’esito dei processi ordinari che si svolgono nella fase dibattimentale di primo grado.
I dati seguono lo sviluppo logico e cronologico del processo, preceduto da una distinzione a monte che indica l’esito dell’udienza considerata.
Se l’esito è decisorio (sentenza), i dati forniscono precisazioni sulla natura della decisione (assoluzione, condanna, estinzione del reato e – all’interno di quest’ultima – la ragione dell’estinzione: remissione di querela, prescrizione, oblazione).
Se l’udienza si conclude con un rinvio – sia esso effettuato in via preliminare oppure all’esito di una trattazione incompleta rispetto a quanto programmato – i dati si diffondono nella descrizione delle ragioni dei rinvii (ciò che costituisce l’obiettivo primario dell’indagine).
La lettura delle tabelle è univoca.
I processi arrivano al dibattimento già invecchiati nella fase delle indagini (anche in relazione a imputazioni banalissime, oggetto di indagini puramente routinarie) e, quando inizia finalmente il dibattimento, deve passare attraverso l’imbuto di adempimenti che la macchina amministrativa, semplicemente, non riesce ad organizzare con standard di efficienza minimamente decenti.
E’ impressionante constatare quanti processi vengano rinviati perché è stata omessa la citazione dei testimoni o è fallita la loro citazione per banali quanto sistematici inceppamenti (indirizzi sbagliati, cartoline postali che non ritornano, notifiche intempestive) e quanti altri perché i testimoni, regolarmente citati, semplicemente non compaiono, tradendo così la diffusa percezione da parte dei cittadini, di una scarsa autorevolezza di quell’intimazione dell’Autorità giudiziaria (e come dar loro torto quando poi accade che i testimoni, regolarmente comparsi, si vedono rimandati a una nuova udienza e poi magari a un’altra ancora, dopo aver trascorso inutilmente ore ed ore davanti alla porta dell’aula)?
Colpisce constatare quanto alto sia il numero dei rinvii dovuti alla assenza del Giudice (o dei Giudici); e quanti siano dovuti al carico abnorme dei ruoli, che rende pressoché impossibile rispettare il programma della giornata.
Le cause reali.
ESITO DEI PROCESSI
Come detto sopra, anzitutto l’indagine ha inteso rilevare quale sia, mediamente, l’esito dei processi penali celebrati nelle aule del Tribunale di Roma: quali si concludano con sentenza (assoluzione, condanna o estinzione del reato), quali con restituzione degli atti al PM per ragioni di nullità processuali, quali infine con rinvio ad altra udienza (sia all’esito di una parziale trattazione sia senza lo svolgimento di alcuna attività istruttoria).
Nel 69,7% dei casi, l’esito è il rinvio ad altra udienza. Nel 28,6% l’esito è la sentenza. Nell’1,7% la restituzione degli atti al PM.
1) RAGIONE DELLA RESTITUZIONE DEGLI ATTI AL PM
Nel 63% dei casi, per nullità della citazione diretta a giudizio (non è prevista l’udienza preliminare). Nel 7,4% per nullità del decreto che dispone il giudizio. Dunque, oltre il 70% dei casi di restituzione è determinata da una delle nullità, previste nel codice, dell’atto introduttivo del giudizio dibattimentale.
Le altre ragioni di restituzione degli atti al PM (indeterminatezza dell’imputazione, incertezza individuazione imputato, omessa indicazione giorno ora o luogo di comparizione, omesso avvertimento della facoltà di richiedere riti alternativi) assumono un peso pressoché irrilevante.
Da quanto sopra, emerge la modestissima incidenza delle declaratorie di nullità del decreto che dispone il giudizio e della citazione diretta a giudizio sulla ragionevole durata del processo (il 70% dell’1,7%, vale a dire circa l’1% dei processi fissati per il dibattimento).
Eppure, nel dibattito e nella polemica sulla ragionevole durata del processo si tende ad individuare in alcune di queste norme di garanzia un terreno di intervento privilegiato per una riforma efficiente del processo penale.
Il dato qui rilevato smentisce la necessità di un intervento su queste previsioni di nullità degli atti processuali (poste a salvaguardia dei diritti processuali dell’imputato).
2) I PROCEDIMENTI CHE SI CONCLUDONO CON L’EMANAZIONE DI UNA SENTENZA
Essi ammontano al 28,6% del totale dei processi trattati.
Di questo 28,6%:
Il 51,4% delle sentenze sono di condanna, il 23,1% di assoluzione e il 21,2% sanciscono l’estinzione del reato.
Si ricorda che si tratta di dati relativi alla sola fase dibattimentale, per cui tali dati debbono aggiungersi alle decisioni di analogo tenore assunte nelle fasi precedenti al dibattimento (per l’ipotesi della condanna a quelle inflitte dal GUP in sede di riti alternativi; per le assoluzioni, alle decisoni analoghe assunte nelle fasi procedimentali precedenti).
Non si è approfondito l’esame di tali dati, in quanto esulava dall’oggetto della ricerca (vale a dire la durata del processo penale).
Il terzo esito decisorio possibile è la sentenza dichiarativa di non luogo a procedere per intervenuta estinzione del reato (21,2% dei processi trattati).
Di questo 21,2%:
Per il 63% dei casi il motivo è la prescrizione; per il 14,1% la remissione di querela; per il 4% l’oblazione.
3) IL RINVIO DEI PROCESSI
Nel 69,7% dei casi, come visto sopra, l’esito del processo è il rinvio ad altra udienza.
Va precisato che in tale percentuale sono stati computati sia i processi rinviati per ragioni “genericamente patologiche” (carico del ruolo, errori o omissioni nelle notifiche, assenza dei testi, assenza del giudice o del pubblico ministero, impedimento del difensore o dell’imputato) sia quelli differiti per la prosecuzione dell’istruttoria, dopo aver regolarmente svolto l’attività prevista per quella udienza.
I RINVII NELLA FASE PRELIMINARE DELL’UDIENZA
Il legittimo impedimento dell’imputato (nella maggior parte dei casi dovuto all’esibizione di un certificato medico attestante una condizione di salute che non gli consente di partecipare all’udienza) determina il rinvio del solo 2% dei processi.
Di poco superiore (3%) i rinvii dovuti a legittimo impedimento del difensore (va ricordato che le cause che rendono legittimo l’impedimento del difensore sono rigorosamente regolate dal codice di procedura penale e dall’interpretazione giurisprudenziale): a esempio, il contestuale impegno del difensore in altro procedimento, purché l’altro impegno risulti stabilito prima della fissazione dell’udienza in questione oppure che riguardi detenuti; che tale impegno sia stato comunicato al giudice tempestivamente; che sia dimostrato che il difensore non possa avvalersi di sostituti in grado di svolgere la difesa in sua vece ecc.
I rinvii per esigenze difensive (determinati da necessità processuali contingenti: incarichi difensivi conferiti solo poche ore prima dell’udienza, scarsa diligenza nella preparazione dell’udienza da parte del difensore), che il difensore rappresenta al giudice e questi ritiene di accogliere: 3,2%
Processi rinviati per ragioni logistico-organizzative 1,8%. Indisponibilità dell’aula, del trascrittore, assenza interprete di lingua straniera, mancanza del fascicolo del PM e in certi casi di quello del dibattimento.
Rinvio per carico del ruolo 2%. Rinvii originariamente non prevedibili (processo regolarmente fissato nel ruolo), il processo potrebbe essere regolarmente trattato ma lo sviluppo dell’udienza (istruttorie di altri processi che si prolungano, contrattempi vari, discussioni impegnative) determinano il rinvio ad altra udienza di uno o più procedimenti sul ruolo.
Molto alto è il dato dei processi rinviati per assenza del giudice titolare: ben il 9,2 %.
Va detto che il valore così elevato è dovuto all’ovvia considerazione che l’impedimento (quale ne sia la ragione) del giudice, determina il rinvio di tutti i processi fissati per quell’udienza.
Tuttavia, il dato resta comunque significativo.
Rinvii per questioni processuali (astensione o incompatibilità o incompetenza del giudice, riunione ad altro procedimento penale): 3,2%
Sintomatici delle reali patologie del processo penale sono i dati relativi ai rinvii (sempre rimanendo all’interno della fase preliminare dell’udienza, in particolare quella relativa alla corretta costituzione del rapporto processuale) determinati da irregolarità (ricomprendendo in essa: omissione, erroneità, tardività) delle notifiche all’imputato, alla persona offesa e al difensore.
Il 7,8% dei processi viene rinviato per irregolarità della notifica all’imputato.
Il 2% per irregolarità della notifica alla persona offesa (il minor dato si spiega in ragione del fatto che non tutti i reati presuppongono l’esistenza di una persona offesa dal reato).
Il 3,6% per irregolarità della notifica al difensore (è un dato assai rilevante, se si riflette sulla circostanza che la notifica, in tale caso, dovrebbe essere difficilmente fallibile, dovendo essere eseguita presso lo studio del difensore (in linea prevalente nella medesima città in cui si celebra il processo) e soprattutto presso un domicilio ufficialmente registrato nell’Albo degli avvocati tenuto e aggiornato dal Consiglio dell’Ordine di appartenenza e dunque agevolmente reperibile.
Questo dato fa riflettere sull’illusoria efficacia di certe scorciatoie riformatrici, che vorrebbero, per risolvere i problemi della notifica all’imputato, utilizzare a quel fine il domicilio del difensore.
Sommando i relativi dati, emerge che sin dalla fase preliminare dell’udienza, il 34,9% dei processi viene rinviato per legittimo impedimento imputato e difensore, assenza giudice titolare, problemi logistico organizzativi, irregolarità notifiche a imputato, persona offesa e difensore, carico del ruolo, incompetenza, incompatibilità, astensione, riunione ad altro procedimento.
Se a questo dato si aggiunge il precedente relativo ai rinvii per restituzione degli atti al pm (1,7%), si scopre che il 36,6% dei processi penali viene rinviato ad altra udienza o ad altra fase procedimentale o a udienza da definirsi già nella fase preliminare dell’udienza stessa.
A tale dato possono aggiungersi i rinvii dei processi in prima udienza per sola ammissione delle prove, che ammontano al 20% del totale.
Deve precisarsi che tali rinvii derivano da un accordo tra l’avvocatura e la Presidenza del Tribunale di Roma (come accade nella gran parte dei Fori italiani) per cui le prime udienze dibattimentali sono destinate alla eventuale formulazione di questioni preliminari e alle richieste di prova avanzate dalle parti, dopo aver deciso le quali il giudice rinvia a successiva udienza per l’inizio dell’istruttoria dibattimentale.
E’ il sistema delle c.dd. “udienze filtro”, peraltro indispensabile se si vuole garantire un minimo di qualità e ordine nella trattazione del processo.
Se, in conclusione, si considerano anche questi ultimi rinvii, oltre la metà dei procedimenti penali fissati per il dibattimento ordinario avanti le aule del Tribunale di Roma vengono rinviati ad altra udienza (se non addirittura ad altra fase procedimentale) e solo una parte minore di questi (il 20%) dopo aver per lo meno trattato e risolto le questioni preliminari e la fase dell’ammissione della prova.
I RINVII DEI PROCESSI FISSATI PER L’ISTRUTTORIA DIBATTIMENTALE
Il 9,6% dei processi fissati per l’istruttoria dibattimentale vengono rinviati ad altra udienza senza lo svolgimento di alcuna attività per irregolare (omessa, erronea) citazione dei testi del PM.
Impressionante è il dato relativo ai rinvii per assenza dei testi citati dal PM (28,9%).
Dato, quest’ultimo, rilevante soprattutto dal punto di vista sociologico, perché denota una debolissima capacità persuasiva, nei confronti del cittadino, di un’intimazione a comparire in udienza per rendere esame testimoniale.
Indifferenza del cittadino di fronte all’autorità giudiziaria. Solo in rari casi il giudice ha applicato la sanzione della condanna al pagamento di somma in favore della Cassa delle ammende e in misura ancora minore ha disposto l’accompagnamento coattivo.
Irrilevante (0,8%) la percentuale di rinvii per irregolare citazione dei testi della difesa, mentre e comunque contenuta (3,3%) quella dei rinvii per assenza dei testi citati dalla difesa.
Questo dato, rapportato a quello relativo all’irregolarità della citazione dei testi del PM, fa riflettere sul fatto che l’anomalia funzionale sia nella struttura istituzionalmente deputata ad effettuare le notifiche (l’ufficio unico notifiche atti giudiziari), posto che il difensore di norma non si avvale di questo ufficio, ma vi provvede a mezzo posta o mediante convocazioni dirette.
Il dato clamoroso che emerge è che ben il 42,6% dei processi fissati per lo svolgimento dell’istruttoria dibattimentale viene rinviato senza svolgimento di alcuna attività perché il banale atto della citazione del testimone o è stato del tutto omesso oppure è stato effettuato in modo errato oppure, pur essendo stato regolarmente effettuato, non è stato ottemperato dal destinatario.
I rinvii per prosecuzione della istruttoria incidono per il 30,9% (si tratta di quei processi nei quali viene integralmente effettuata l’istruttoria programmata e che vengono rinviati ad altra udienza per la fisiologica prosecuzione dell’istruttoria che ancora dovrà svolgersi.
A tale dato può sommarsi quello, omogeneo, dei rinvii per integrazione della prova a fini processuali (12,40%): si tratta di rinvii disposti dal giudice a conclusione della istruttoria, istruttoria che il giudice ritiene di dover integrare con ulteriori atti istruttori (esami di nuovi testimoni, confronti, conferimento di perizie, acquisizione di documentazione).
Rinvii per la sola discussione (5,7%) e per repliche (0,2%).
Avv. Antonio Salvatore

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