lunedì 9 febbraio 2009

IL CONFINE ORIENTALE: ASPETTI STORICO GIURIDICI

Relazione tenuta dall'Avv. Antonio Salvatore nel convegno “Il lungo esodo” il 10 febbraio 2009 presso la Biblioteca Ariostea di Ferrara

Si ritiene di far precedere la trattazione dell'oggetto principale della presente relazione – vale a dire la vexata quaestio dei cc.dd. “beni abbandonati” - da una veloce disamina degli strumenti di diritto internazionale che stanno, per così dire, sullo sfondo della delicata questione e dalla conoscenza dei quali è impossibile prescindere per il corretto inquadramento della stessa.
Il 10 febbraio 1947, a Parigi, venne, come noto, firmato il Trattato di Pace tra l'Italia e le Potenze alleate e associate (tra cui la Jugoslavia).
Trattato assai contestato a livello non solo politico ma anche dottrinale, in quanto imposto all'Italia senza alcuna possibilità di negoziazione (sarà definito, perciò, “Diktat”), segnando in maniera drammatica le sorti del “confine orientale” italiano.
Il Trattato di Pace comportò la cessione, alla Jugoslavia, di una parte consistente dei territori acquisiti dall'Italia dopo la Prima Guerra Mondiale: ben 7.700 chilometri quadrati, comprensivi delle città di Pola, Zara, Fiume e di gran parte dell'Istria. Per effetto del Trattato venne, inoltre, costituito tra l'Italia e la Jugoslavia uno “Stato cuscinetto”, definito “Territorio Libero di Trieste” (acronimo “TFL”), risultante dalle due zone di occupazione affidate, rispettivamente, all'amministrazione militare di Gran Bretagna e Stati Uniti (“zona A”) e a quella jugoslava (“zona B”).
In seguito a difficoltà insorte, segnatamente quella legata alla mancata nomina del Governatore, la situazione delineata dal Trattato di Pace venne modificata dal “Memorandum di Londra” del 5 ottobre 1954, assegnandosi la “zona A” all'amministrazione civile italiana e la “zona B” all'amministrazione civile jugoslava.
Il “Memorandum di Londra” – oltre ad aver apposto il crisma della definitività ad un confine tratteggiato a esclusivi scopi militari (esso corrisponde, invero, a larghi tratti, alla c.d. “linea Morgan”), senza tener in nessun conto le caratteristiche storiche ed etniche delle popolazioni interessate - è stato concluso senza autorizzazione né ratifica del Parlamento italiano, dunque in aperto contrasto con l'art. 80 della nostra Costituzione.
Esso è, pertanto, un atto illegittimo in quanto stipulato in violazione di una precisa disposizione costituzionale (si ripete, l'art. 80); più precisamente si tratta di un accordo affetto da “vizio del procedimento di formazione dell'atto”.
Per quanto riguarda gli effetti di tale illegittimità, la dottrina internazionalistica tradizionalmente distingue tra quelli che il trattato produce nell'ordinamento internazionale da quelli che produce nell'ordinamento interno del singolo Stato.
Per i primi, occorre riportarsi all'art. 46 della Convenzione di Vienna del 1969 sul diritto dei Trattati. Tale convenzione ha accolto una soluzione intermedia tra due delle tesi che, storicamente, si cono contrapposte: quella denominata “dualista”, ispirata al principio della netta separazione tra ordinamento internazionale e ordinamenti interni e quella “monista”, basata sull'assunto della c.d. “unitarietà degli ordinamenti giuridici”. Per tale ultima concezione, le norme interne sulla competenza a stipulare avrebbero pieno valore anche nell'ordinamento internazionale e, quindi, la violazione di esse concreterebbe un vizio di illegittimità del consenso anche a livello internazionale.
L'articolo 46 della Convenzione di Vienna in linea di principio nega che la violazione di norme interne sulla competenza a stipulare possa essere invocata come vizio del consenso, “a meno che tale violazione non sia stata manifesta e non concerna una norma di importanza fondamentale del proprio diritto interno”. Lo stesso articolo chiarisce il concetto di “violazione manifesta”, affermando che, perché questa ricorra, occorre il requisito dell'”evidenza obiettiva” per qualsiasi Stato che si comporti, in materia, “in base alla normale prassi ed in buona fede”.
Si può affermare che, essendo l'art. 80 della Costituzione italiana una disposizione di importanza fondamentale, la violazione di esso ben può costituire un vizio del trattato come atto internazionale.
Con la legge del 14 marzo 1977 n. 73 è stato ratificato il Trattato di Osimo del 10 novembre 1975, stipulato tra Italia e Jugoslavia e finalizzato a stabilire la cooperazione pacifica e i rapporti di buon vicinato, dando così l'avvio a una nuova fase nei rapporti tra i due Paesi.
Con tale Trattato – che confermò le intese provvisorie contenute del “Memorandum” del 1954 – venne fissata definitivamente la frontiera tra i due Stati. L'Italia, con la stipula di esso, rinunciò definitivamente e senza alcuna contropartita agli ultimi lembi della penisola istriana (la cosiddetta “zona B”).
Va, infine, menzionato l'accordo di indennizzo (denominato “Trattato di Roma”) concluso il 18 febbraio 1983 tra Italia e Jugoslavia, relativo alla ex “zona B” del Territorio Libero di Trieste, che si riferisce “ai beni, diritti ed interessi” indicati nell'art. 4 del Trattato di Osimo, “oggetto di misure di nazionalizzazione o di esproprio o di altri provvedimenti restrittivi da parte delle Autorità militari, civili o locali jugoslave”.
Secondo l'accordo del 1983, tali ”beni, diritti ed interessi...sono considerati come definitivamente acquisiti dalla Repubblica socialista federativa di Jugoslavia” (art. 1), la quale si obbliga a versare “al Governo italiano, a titolo di indennizzo, la somma di 110 milioni di dollari U.S.A.” (art. 2).
Una recente indagine ha mostrato come l'indennizzo previsto dall'accordo di Roma sia tutt'altro che “equo e accettabile”, ammontando solo a pochi centesimi di dollaro per metro quadro. Nell'indagine si sono assunte tre ipotesi di lavoro: a) che i beni italiani della “zona B” fossero pari all'estensione territoriale di questa; b) che fossero pari alla metà di questa; c) che fossero pari ad un terzo di questa. Nei tre casi, si giungerebbe ai seguenti valori: a) dollari 0,208; b) dollari 0,416; c) dollari 0,312. Non sono stati considerati gli immobili, visto che il valore è stabilito “in pianta”, ossia per metro quadro di terreno. L'inadeguatezza dell'indennizzo risulta, del resto, dallo stanziamento previsto dalla proposta di legge italiana del 1996, che prevedeva la distribuzione tra gli esuli della somma di 5 mila miliardi di lire. Orbene, 110 milioni di dollari corrispondono, al cambio attuale, a meno di 110 milioni di euro, mentre 5 mila miliardi di lire corrispondono a ben 2,58 miliardi di euro.
In ogni modo, l'art. 3 del Trattato di Roma dispone che: “il pagamento verrà effettuato a partire dal primo gennaio 1990 in 13 annualità eguali con un accreditamento su un conto intestato al Ministero del Tesoro presso la Banca d'Italia in Roma”.
Ad oggi, soltanto due rate (1990 – 1991) sono state pagate dall'ex Jugoslavia, prima della sua disintegrazione (2/13 di 110 milioni di dollari, vale a dire circa 17 milioni di dollari).
Il Governo sloveno ha poi versato, in varie rate, il 60% della somma residua, depositando l'importo di 56 milioni di dollari presso una banca lussemburghese.
Il pagamento non risulta accettato dal Governo italiano.
La Croazia avrebbe dovuto versare l'altro 40%, ma non ha pagato alcunché.
La distribuzione percentuale tra Croazia e Slovenia pare sia stata definita da un accordo tra i due Stati, ma tale accordo non produce di per sé effetti nei confronti dell'Italia, che non risulta averne accettato il contenuto.
Gli obblighi assunti dalla Jugoslavia con gli artt. 2 e 3 dell'Accordo del 1983 non sono stati adempiuti; il carattere solidale dell'obbligazione esclude che uno dei due Stati successori possa effettuare un pagamento parziale. Pertanto, l'adempimento non è perfetto e si prospetta la possibilità per il Governo italiano di richiedere la risoluzione dell'accordo del 1983 per inadempimento della controparte.
A tale proposito va ricordato che l'art. 60, paragrafo 1, della sopra richiamata Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati del 1969 stabilisce che “una violazione sostanziale di un trattato bilaterale ad opera di una delle parti legittima l'altra a invocare la violazione come motivo di estinzione del trattato o di sospensione totale o parziale della sua applicazione”.
La violazione degli obblighi posti dagli artt. 2 e 3 dell'Accordo del 1983 ha indubbiamente carattere sostanziale poiché i versamenti sono stati interrotti dopo due anni.
La risoluzione del trattato dovrebbe aver effetto nei confronti sia della Slovenia che della Croazia, dato il carattere solidale degli obblighi che loro incombono quali successori della Jugoslavia.
Va aggiunto che Slovenia e Croazia sono divenute parti della Convenzione europea dei diritti dell'uomo e del relativo Protocollo addizionale n. 1 con atti di adesione depositati, rispettivamente, il 28 giugno 1994 e il 5 novembre 1997. A seguito di tale adesione, i due Stati si sono obbligati a garantire “ad ogni persona soggetta alla loro giurisdizione i diritti e le libertà definiti al titolo I della Convenzione, oltre che quelli garantiti dai Protocolli”.
L'art. 1 del Protocollo dispone: “ogni persona fisica o giuridica ha diritto al rispetto dei suoi beni. Nessuno può essere privato dei suoi beni salvo che per causa di utilità pubblica e nelle condizioni previste dalla legge e dai principi generali del diritto internazionale.”
Le eccezioni sono previste dal successivo capoverso:
“Le disposizioni che precedono non recano pregiudizio al diritto degli Stati di mettere in vigore le leggi da essi considerate necessarie per regolare l'uso dei beni in modo conforme all'interesse generale o per assicurare il pagamento delle imposte o di altre contribuzioni o delle ammende”.
Secondo l'art. 14 della Convenzione europea il godimento dei diritti e delle libertà fondamentali deve essere assicurato senza discriminazione di alcuna specie come di sesso, razza, colore, lingua, religione, opinione politica – o di altro genere – origine nazionale o sociale, appartenenza ad una minoranza nazionale, ricchezza, nascita o altra condizione.
Tale articolo esprime il principio di “non discriminazione”.
Secondo l'interpretazione accolta dalla Corte europea dei diritti dell'uomo (a partire dal caso “Sporrong e Lonnroth c. Svezia”), l'art. 1 del Protocollo n. 1 contiene tre norme distinte: “la prima, contenuta nella prima frase del primo paragrafo, ha tenore generale e sancisce il principio del rispetto della proprietà, la seconda, enunciata nella seconda frase del medesimo paragrafo, prevede la privazione della proprietà e la sottopone a talune condizioni, la terza, espressa nel secondo paragrafo, riconosce agli Stati contraenti il potere, fra l'altro, di disciplinare l'uso dei beni conformemente all'interesse generale. Non si tratta di disposizioni prive di rapporti tra loro; la seconda e la terza si riferiscono a esempi particolari di limitazioni del diritto di proprietà e pertanto devono essere interpretate alla luce del principio sancito dalla prima”.
Quanto all'art. 14 della Convenzione, l'interpretazione corrente che ne dà la Corte è nel senso che tale disposizione costituisce un completamento delle norme sostanziali contenute nella Convenzione e nei Protocolli.
L'art. 14 non ha quindi, secondo la Corte, un'esistenza autonoma, in quanto produce effetti soltanto in relazione al godimento dei diritti e delle libertà garantiti da quelle norme.
In tale prospettiva, è stato osservato, non potrebbero essere sottoposti ad alcuna valutazione di legittimità tutti gli atti e i provvedimenti con i quali era stata a suo tempo introdotto il regime di proprietà sociale: mancherebbe, infatti, qualsiasi competenza della Corte “ratione temporis”.
Si tratta allora di verificare la possibilità di applicazione del regime convenzionale (e dei principi elaborati dalla Corte) in relazione alla normativa emanata dai due Stati (Croazia e Slovenia) dopo la fine del regime comunista, con le cc.dd. “leggi di denazionalizzazione”, provvedimenti normativi emanati dalla Croazia e dalla Slovenia, quali Stati successori della ex-Jugoslavia con i quali, per un verso, è stata abolita la c.d. “proprietà sociale”, di cui si tratterà in appresso e, per altro verso, si è disciplinato il ritorno al regime di proprietà privata (attraverso la restituzione dei beni e/o l'indennizzo ai precedenti proprietari) dei patrimoni nazionalizzati sotto il passato regime comunista e passati in mano pubblica.
Per quanto riguarda la Croazia, il testo iniziale della legge del 17 ottobre del 1996, non concedeva ai precedenti proprietari il diritto di richiedere né la restituzione né l'indennizzo, laddove alla data di entrata in vigore della legge essi non fossero in possesso della cittadinanza croata (art. 9, comma 1, “I diritti previsti da questa legge competono alle persone fisiche – precedente proprietario, ossia ai suoi eredi legittimi fino al primo grado – che nel giorno dell'entrata in vigore della presente Legge abbiano la cittadinanza croata”; la legge slovena, similmente, dispone: “Le persone fisiche avranno diritto se, al momento della nazionalizzazione del loro patrimonio, erano cittadini jugoslavi”).
La legge croata prevedeva ulteriormente (art. 10) che il diritto alla restituzione/indennizzo non esisteva laddove un trattato internazionale avesse già regolamentato la materia.
Veniva, inoltre, prescritto che le persone (fisiche e giuridiche) non aventi cittadinanza croata non fossero eleggibili, tranne nel caso in cui un trattato internazionale avesse diversamente disposto (art. 11).
La Corte Costituzionale croata venne investita della questione di costituzionalità delle previsioni della legge suddetta e in data 21 aprile1999 dichiarò incostituzionali le limitazioni riguardanti le persone fisiche (non quelle giuridiche!) straniere. Statuì la Corte che “discriminare i precedenti proprietari sulla base del possesso di un determinato “status” (come quello di cittadinanza) è ingiusto e non può essere giustificato dalla necessità di proteggere altri diritti costituzionalmente tutelati. Il diritto degli stranieri di ricevere in restituzione gli immobili dovrà essere regolato in armonia con le disposizioni di legge riguardanti il diritto degli stranieri di acquistare immobili in territorio croato”.
La Corte cassò, pertanto, l'art. 9.
Il Parlamento croato (“Sabor”), con legge 5 luglio 2002, recante “modifiche e aggiunte alla legge sull'indennizzo del patrimonio tolto durante il periodo del regime comunista jugoslavo” ha emendato la precedente legislazione del 1996, in conformità al dettato della Corte Costituzionale.
Sono state cancellate le parole contenute nell'art. 9, comma 1, relative alla “cittadinanza croata”, tuttavia la nuova legge, all'art. 2, dispone che “il proprietario precedente non ha diritto all'indennizzo del patrimonio sottratto qualora la questione dell'indennizzo è stata risolata con accordi internazionali”.
La legge croata di denazionalizzazione allude alla cittadinanza straniera anche nelle norme successive (artt. 10 e 11), che riguardano pure ipotesi coperte da accordi internazionali: (art. 10: “il precedente proprietario non ha diritto alla restituzione della proprietà tolta qualora la questione della restituzione costituisca oggetto di accordi internazionali, salvo che non sia diversamente disposto dalla legge”; art. 11, comma 1: “alle persone fisiche e giuridiche straniere non competono i diritti di questa legge”; art. 11, comma 2: “eccezionalmente, in deroga al precedente comma 1, i diritti previsti da questa legge possono essere assegnati alle persone fisiche e giuridiche quando ciò è previsto da accordi internazionali”.
Fino ad ora, l'interpretazione di tale legge è stata nel senso che, laddove lo Stato della cui cittadinanza è in possesso lo straniero non avesse concluso un trattato internazionale con la Repubblica della Croazia, ai suoi cittadini non poteva essere riconosciuto il suddetto diritto (un caso recente è stato discusso nell'aprile del 2005).
La suddetta interpretazione della normativa è stata sovvertita dalla recente decisione del 14 febbraio 2008 del Tar della Croazia, per il quale il requisito della stipulazione di un trattato internazionale non è più considerato come un elemento dirimente, nonostante il tenore letterale della norma.
Il Tar ha riconosciuto a Zlata Ebenspanger, ebrea di origini croate in seguito divenuta cittadina brasiliana (o meglio al proprio figlio, che le successe nel corso del processo dopo la sua morte), il diritto a ricevere in restituzione ovvero a ricevere un indennizzo per un'unità immobiliare sita nel centro di Zagabria e passato in mano pubblica subito dopo il secondo conflitto mondiale.
Il Tar non si è, invero, riferito alla formulazione letterale, ma ha tenuto conto del fatto che la Corte costituzionale dichiarò incostituzionale l'art. 9 nella parte in cui richiedeva il requisito della cittadinanza croata e ha concluso che il diritto a essere risarcito appartiene a tutte le persone fisiche straniere, rispetto alle quali il tema dei beni “rapinati” non ha formato oggetto di alcun trattato internazionale.
Nel caso in cui la decisione del Tar dovesse essere confermata, verrebbero repentinamente riproposte le numerose rivendicazioni da tempo congelate negli armadi del ministero degli esteri a Zagabria.
La Croazia, del resto, ha da tempo annunciato la sua intenzione di rivedere l'attuale normativa sui beni nazionalizzati, il che rappresenta anche uno degli impegni che rientrano nella trattativa della sua adesione alla UE.
La sentenza suddetta ha creato allarme non solo a Zagabria ma anche nelle amministrazioni regionali e cittadine costiere.
Da un sommario inventario, risulterebbe che nella sola Spalato le proprietà rivendicate da stranieri siano almeno 72 (case di abitazione, antichi palazzi, poderi, aree edificabili ecc.). Nella sola cinta urbana spalatina gli immobili rivendicati sarebbero oltre 40 (32 richiesti da cittadini italiani, 5 da persone residenti negli USA e 3 da cittadini tedeschi). A Zara, che detiene il primato in Dalmazia in quanto a istanze di restituzione di beni nazionalizzati, le proprietà rivendicate da stranieri sarebbero un'ottantina, fra le quali spicca la sede della “Maraska”, ossia della storica distilleria del Maraschino, rivendicata dagli eredi Luxardo. A Sebenico, si sa per certo che le proprietà rivendicate da cittadini italiani sono una decina.
Venendo alla Slovenia, la legge di denazionalizzazione del 29 novembre 1991 è stata prima emendata con legge n. 720 del 16 settembre 1998. Successivamente, la Corte Costituzionale slovena ha preso in esame tali emendamenti con la sentenza 30 settembre 1998, dichiarando l'illegittimità costituzionale dell'art. 9 della legge, che limitava il diritto alla restituzione a quanti avessero originariamente, o avessero acquistato successivamente, la cittadinanza jugoslava.
Tuttavia, l'art. 10 della legge slovena recita ancora: “non avranno diritto, ai sensi della presente legge, quelle persone fisiche che hanno percepito o avevano il diritto di percepire un indennizzo, per la sottrazione del patrimonio, da parte di uno Stato straniero”, alludendo agli accordi conclusi tra la Jugoslavia con l'Italia e con l'Austria.
Per comprendere pienamente la questione dei “beni abbandonati”, occorre prendere le mosse dal significato delle misure di “nazionalizzazione, riforma agraria o di confisca”, adottate dalle autorità jugoslave circa la proprietà dei beni a partire dal 1945.
Non si tratta di misure di esproprio – come potrebbe apparire naturale agli occhi di un osservatore occidentale – quanto, piuttosto, dell'avocazione di taluni beni ad un regime di proprietà del tutto nuovo e originale, introdotto nel diritto civile jugoslavo dopo la rivoluzione comunista e la guerra.
La proprietà sociale (drustveno vlasnistvo) è un'elaborazione socialista dei rapporti di proprietà relativi agli immobili, che vigeva nella sola Jugoslavia. Tali beni non erano di proprietà dello Stato jugoslavo, bensì della società jugoslava intesa come “pluralità di uomini e donne lavoratori”.
Tale proprietà sociale veniva soltanto concessa in uso allo Stato, agli enti locali e ai privati.
Per effetto del “Memorandum” del 1954, i beni sottratti sono stati, nella maggioranza dei casi, iscritti nei libri fondiari come proprietà sociale concessa in uso ai Comuni.
L'acquisto come “proprietà sociale” avveniva “a titolo originario” e non “derivativo”: ciò implicava la nascita di un diritto nuovo e non la cessione dell'antico.
Con le leggi di denazionalizzazione, come sopra osservato, l'istituto della “proprietà sociale” è stato abolito: i beni ritornano, ove possibile, ai proprietari di un tempo, facendo quindi nascere, oggi, un diritto alla restituzione, coniugato all'originario diritto di proprietà.
Il fatto che l'acquisto fosse avvenuto, a suo tempo, a titolo originario, indica chiaramente come, una volta abolito l'istituto della “proprietà sociale”, non possa che rivivere il diritto di proprietà, anche se alla stregua di diritto alla restituzione. Tanto è vero che la legge croata dispone la restituzione ai precedenti proprietari.
Se, viceversa, si fosse trattato di acquisto a titolo derivativo, la cessione avrebbe avuto carattere definitivo, trasferendo al cessionario la totalità dei diritti del cedente.
Considerando l'insieme degli accordi internazionali tra Italia e Jugoslavia alla luce del loro oggetto e del loro scopo (criterio interpretativo fissato dalla Convenzione di Vienna del 1969 sul diritto dei trattati), si può osservare che l'Italia:
riconosceva l'introduzione dei regimi di proprietà pubblica e sociale nell'ordinamento jugoslavo ed il conseguente mutamento che si verificava sui diritti di proprietà privata;
rinunciava a pretendere l'applicazione delle norme contenute nel Trattato di Pace riguardo ai beni dei cittadini italiani nei territori ceduti;
si obbligava a non proporre nei confronti della Jugoslavia rivendicazioni riguardo a tali beni.
Quale contropartita di quest'ultimo obbligo, di carattere negativo, la Jugoslavia si impegnava a versare all'Italia determinate somme a titolo di indennizzo; esse rappresentavano il corrispettivo della mancata restituzione dei beni prevista dai vari trattati e della sottoposizione dei beni stessi ai regimi di proprietà pubblica e sociale instaurati nell'ordinamento jugoslavo.
La presenza e la permanenza del regime proprietario in questione costituiscono il presupposto fondamentale della disciplina pattizia e la condizione logica e giuridica della sua operatività.
Con il mutamento del regime della proprietà intervenuto negli ordinamenti sloveno e croato a seguito dell'emanazione delle leggi di denazionalizzazione, rispettivamente, come si è visto, nel 1991 e nel 1996, il presupposto fondamentale della disciplina è venuto meno.
L'esigenza di convenire sulla difficoltà di procedere alla restituzione dei beni e di astenersi dal formulare pretese al riguardo si era, invero, profilata in relazione al regime della proprietà allora vigente in Jugoslavia.
La trasformazione dell'assetto proprietario in Slovenia e Croazia e l'abolizione del regime della proprietà sociale rappresentano, incontestabilmente, un mutamento fondamentale delle circostanze, che facevano parte della base essenziale del consenso che aveva portato alla disciplina pattizia.
Inoltre, il mutamento intervenuto ha radicalmente trasformato la portata dell'obbligo, precedentemente assunto dall'Italia, di non avanzare alcuna ulteriore rivendicazione in relazione ai beni sottoposti ai regimi della proprietà pubblica e sociale.
Sono, dunque, presenti entrambi gli elementi che, alla luce dell'art. 62 della Convenzione di Vienna sui diritto dei trattati, giustificano la risoluzione di un trattato.
Si tratta della clausola “rebus sic stantibus”, vista come causa di estinzione degli accordi internazionali.
Ritenere vigente tale clausola significa ritenere che un trattato si estingua, in tutto o in parte, per il mutamento delle circostanze di fatto esistenti al momento della stipulazione del trattato stesso, purché si tratti di circostanze essenziali, senza le quali i contraenti non si sarebbero indotti al trattato o a parte di esso.
Nella storia antica troviamo riferimenti alla rilevanza del mutamento delle circostanze.
Un'approfondita esplorazione della problematica si trova in Polibio, che descrisse una sentenza dell'assemblea spartana del 211 a.C., chiamata a decidere se mantenere in vigore un trattato di alleanza con gli Etoli o sostituirlo con una nuova alleanza con la Macedonia.
Polibio parlò di “radicale mutamento delle cose di Grecia”, che egli ritenne essersi verificato a seguito dell'intervento dei barbari Romani, a vantaggio dei quali avrebbe giocato il mantenimento dell'alleanza con gli Etoli (Polibio, Storie).
Il pensiero di storici e moralisti greci e latini venne ripreso nel “diritto delle genti” dal sedicesimo secolo: Grozio utilizzò tale tesi nel definire i rapporti tra gli Stati. Egli sostenne che non si può pensare che uno Stato avesse inteso obbligarsi a proprio svantaggio, quando si crea una situazione di “impossibilità morale”, provocata dal mutamento delle circostanze.
Il pensiero groziano venne ripreso da Pufendorf, Textor e poi da Vattel, che ritenne che se l'esistenza di un certo stato di fatto era stata determinante per l'assunzione di un obbligo, la permanenza di tale obbligo si legasse indissolubilmente alla permanenza dello stato di fatto.
Fino al diciannovesimo secolo, dall'inquadramento dell'istituto del mutamento delle circostanze derivano due importanti conseguenze:
l'effetto del mutamento può essere solo estintivo;
l'estinzione del trattato è del tutto automatica, a partire dal momento in cui il mutamento si è verificato.
Dal diciannovesimo secolo in poi, numerosi autori hanno sostenuto che tutti i trattati internazionali si intendono conclusi con la tacita clausola “rebus sic stantibus”. Tra essi, Fauchille sostenne che “les traités conclus sans fixation de dureé doivent etre toujours censés contenir une clause rebus sic stantibus, c'est à dire avoir etre signés sous la reserve tacite qu'ils cesseront d'etre en vigueur quand les circostances à raison desquelles il ont eté conclus auront cessé d'exister: la fin d'un traité doit inévitablement suivre la disparition des causes qui l'ont occasioné”.
Altri hanno giustificato la validità del principio con motivi di giustizia, equità, di necessità oppure legittima difesa.
La storia diplomatica del XIX e XX secolo presenta numerosi esempi di trattati denunciati da una delle parti contraenti adducendo il motivo di sopravvenuto mutamento delle circostanze di fatto in vista delle quali furono stipulati. Si ricordano, tra i più importanti: nel 1870, la denuncia da parte della Russia degli articoli del Trattato di Parigi del 1856 relativi alla smilitarizzazione del Mar Nero; nel 1908, l'annessione da parte dell'Austria-Ungheria delle Province della Bosnia e Erzegovina; nel 1919 la richiesta da parte dell'Italia della città di Fiume.
In contrapposizione alle tesi di cui sopra, nel periodo precedente alla Convenzione di Vienna, molti autori ritennero che solo la norma “pacta sunt servanda” avesse reale protezione giuridica e che non ci sarebbe prova dell'esistenza di una consuetudine che riconosca cittadinanza nell'ordinamento internazionale alla clausola “rebus sic stantibus”.
Essi autori consideravano il principio “pacta sunt servanda” indispensabile per la convivenza pacifica degli Stati negando alla clausola “rebus sic stantibus” la natura di vero e proprio istituto giuridico, configurandola come semplice motivo di revisione dei trattati.
Il primo a negare ogni valenza giuridica alla clausola fu Bruno Schmidt, che ravvisò in essa una “massima di esperienza” che fondata sulla “forza delle cose”, un limite al vigore delle norme giuridiche internazionali.
A tale teoria aderì l'italiano Salvioli, che considerò il principio espresso dalla clausola solo come fatto, un “quid” di “pregiuridico” e affermò che i trattati debbono giuridicamente valere e vincolare.
La Convenzione di Vienna del 1969 sul diritto dei Trattati, all'art. 62, comma 1, dispone che “un cambiamento fondamentale delle circostanze intervenuto rispetto alle circostanze esistenti al momento della conclusione di un trattato e che non era stato previsto dalle parti non può essere invocato come motivo di estinzione o recesso, a meno che: l'esistenza di tali circostanze non abbia costituito una base essenziale del consenso delle parti a vincolarsi al trattato; e che tale cambiamento non abbia per effetto di trasformare radicalmente la portata degli obblighi che rimangono da adempiere in base al trattato”.
Non si potrebbe opporre, per non procedere alla restituzione dei beni, l'avvenuto o previsto versamento di un indennizzo. Infatti, la maggior parte dei beni erano stati soggetti al regime di proprietà sociale; tale indennizzo era quindi commisurato non alla cessione della proprietà privata ma alla sua trasformazione in proprietà sociale; qualora una persona ottenesse oggi la restituzione del bene dopo aver conseguito anche l'indennizzo, non ne trarrebbe un arricchimento: non bisogna dimenticare l'enorme differenza tra ammontare dell'indennizzo e il valore di mercato del bene al quale si riferisce.
Tornando al tema della possibilità di applicazione del regime della Convenzione europea dei diritti dell'uomo (e dei principi elaborati dalla Corte dei diritti dell'uomo) in relazione alle “leggi di denazionalizzazione”, non pare che essa possa negarsi, soprattutto se si pone attenzione al fatto che le esclusioni previste dalle due leggi di denazionalizzazione rispetto al diritto, riconosciuto in via generale, alla restituzione dei beni nazionalizzati (“i precedenti proprietari non avranno diritto alla restituzione se la questione sia stata oggetto di trattati internazionali”: legge slovena del 1991 e legge croata del 1996, dopo le modifiche introdotte con legge del 5 luglio 2002), appaiono in aperto contrasto con l'art. 1 del Protocollo addizionale e l'art. 14 della Convenzione europea, costituendone una grave violazione.
Sotto un primo profilo, va sottolineato che il significato e l'effetto delle due leggi di denazionalizzazione è quello di cancellare, del tutto e per tutti, il regime di proprietà pubblica e sociale. Stabilire in queste condizioni il mantenimento del diritto di proprietà in capo agli enti pubblici – Stato e/o Comuni che in precedenza erano titolari della proprietà sociale – negando agli antichi titolari il diritto di riacquistare la loro proprietà significa, in realtà, operare un nuovo trasferimento coattivo del diritto di proprietà a favore del titolare della proprietà sociale. Sotto l'apparenza del mantenimento dello “status quo ante”, nella sostanza le leggi di denazionalizzazione sanciscono una seconda nazionalizzazione: vale a dire una privazione del diritto a riottenere i propri beni, attuandone il trasferimento coattivo a favore dell'ente pubblico.
Ciò si pone certamente in contrasto con gli obblighi assunti con l'adesione di Croazia e Slovenia al Protocollo n. 1 e precisamente con l'obbligo nascente dalla seconda norma derivante dall'art. 1 di tale Protocollo, quello di non privare un soggetto della proprietà dei suoi beni se non per causa di “utilità pubblica”, come previsto in via di eccezione dall'art. 1 del Primo Protocollo.
Si tratta di un atto di espropriazione mascherato, per il quale la questione dell'esistenza di una ragione di pubblica utilità non viene neppure adombrata.
E' inoltre il caso di ricordare che dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo si desume il principio – enunciato ad esempio nella ricordata sentenza Sporrong e Lonnroth – per cui il sistema della Convenzione è destinato a tutelare “diritti concreti ed effettivi”; pertanto deve considerarsi vietato come espropriazione non soltanto ogni provvedimento formalmente destinato al trasferimento coattivo di un bene, ma anche qualsiasi provvedimento tale da pregiudicare l'esercizio del diritto, costituendo una sorta di “espropriazione di fatto”.
Un altro profilo merita di essere approfondito.
Le normative slovena e croata stabiliscono che siano esclusi dal diritto alla restituzione tutti coloro che abbiano percepito o diritto di percepire un indennizzo da uno Stato straniero.
Tali normative sono chiaramente ispirate alla necessità di evitare una doppia percezione del compenso per lo stesso bene. In realtà, siamo di fronte a disposizioni discriminatorie in ragione della nazionalità dei soggetti.
Invero, è indubbio che la disposizione non può che riguardare cittadini stranieri, posto che è evidente che soltanto costoro possono essere beneficiari di indennizzi previsti da accordi internazionali.
Ma la discriminazione sussiste anche dal punto di vista per così dire “materiale”, posto che ai cittadini sloveni e croati viene riconosciuto un diritto alla restituzione dei beni in natura e quindi nel loro valore attuale, mentre agli stranieri tale diritto viene negato e sostituito da una modesta somma di denaro versata a titolo di indennizzo.
Non si tratta, pertanto, della negazione di un diritto del quale gli stranieri abbiano, seppure in forma diversa, già usufruito, ma dell'aperto rifiuto ad attribuire agli stranieri lo stesso trattamento che, in sede di ripristino del regime di proprietà privata, viene riservato ai cittadini croati e sloveni.
In relazione alla Slovenia, che appartiene alla Unione Europea, va, inoltre, ricordata la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione, firmata a Nizza il 7/12/2000, che, all’art. 17, riconosce il diritto di proprietà nel capitolo denominato “libertà” e recita: “ogni individuo ha il diritto di godere della proprietà dei beni che ha acquistato legalmente, di usarli, di disporne e di lasciarli in eredità. Nessuno può essere privato della proprietà se non per causa di pubblico interesse, nei casi e nei modi previsti dalla legge e contro il pagamento in tempo utile di una giusta indennità per la perdita della stessa. L’uso dei beni può essere regolato dalla legge nei limiti imposti nell’interesse generale”.
Come noto, la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea e, in particolare, il suddetto art. 17, dedicato al diritto di proprietà, va considerata alla stregua di importante affermazione di principi fondamentali e generali ricavati sia dalla CEDU e dai Trattati, sia dalle tradizioni costituzionali comuni degli Stati membri, sia dalla giurisprudenza della Corte di giustizia e della Corte europea dei diritti dell’uomo.
Avv. Antonio Salvatore

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